I preparativi di viaggio all’alba, quando i fuochi vengono spenti e all’orizzonte il sole diventa colore albicocca; le dune che si susseguono come onde e il lento avanzare della carovana che proietta di sera ombre gigantesche sulla sabbia; le traversate di notte, per evitare il caldo, sotto un nero turchino, con le guide che si orientano meglio con le stelle che con la bussola. E ancora gli incontri imprevedibili e memorabili, con un capo tribù o con un viaggiatore europeo che si è perso; le bellissime donne tuareg, le donne blu, dagli occhi neri allungati, la pelle inverosimilmente liscia e le movenze morbide; le rivolte sanguinose; le repressioni spietate.
I tuareg vivono da sempre nel grande deserto, dispersi nei tanti stati che costituiscono l’Africa mediterranea, saheliana e sudanese. Legati da unità linguistica e culturale, hanno un patrimonio di usanze e costumi antichissimi fra i quali, singolare e importante, il matriarcato. Prima del matrimonio, le donne tuareg, le bellissime «donne blu», godono di una grande libertà sessuale che trova il suo momento iniziatico nell’agal, la corte d’amore, la festa medievale in cui i giovani si incontrano per cantare i tindé, le canzoni d’amore, e scegliersi.
Sul petto le donne portano amuleti d’argento, il colore della luna, piccoli triangoli che ricordano l’occhio di Horus e appese al collo le stupende croci di Agadéz, reminiscenza dell’egizio hank, lo scettro crociforme segno di immortalità che il farone tiene in mano. Spesso suonano l’inzad, il violino monocorde, e a chi beve con loro il tè di menta, nei piccoli bicchieri, non mancano quasi mai di regalare il grigri, uno straordinario portafortuna da non abbandonare mai.
Tutto questo straordinario mondo poetico, fatto di bellezza ma anche di rivolta (memorabile quella condotta da Kaossen ag Mohamed van Tegidda, il Lawrence nero, il principe dei guerrieri tuareg, contro francesi, italiani e inglesi per quindici, lunghi anni) e crudeltà (le teste mozze sono tra i trofei prediletti dai tuareg), è mirabilmente racchiuso nelle pagine di questo libro. Con la sua «particolare capacità evocativa» (Stefano Malatesta), Cino Boccazzi ci restituisce il paesaggio e gli odori dell’avventura che abbiamo sempre sognato: i grandi mari di sabbia, i profondi crepacci tortuosi, le spiagge tormentate dai venti monsonici, e poi il profumo intenso, resinoso e pesante delle città carovaniere, l’acuto odore di cavalli e di cammelli, l’aroma del cinnamomo, del nardo e della mirra e quello del vento del deserto, che non sa più di nulla e, come dicono i nomadi, «è l’odore dell’eternità».
Le donne blu e altre storie di Cino Boccazzi (pagg. 240 Editore: Neri Pozza Collana: I narratori delle tavole).