(3ª parte di: Viaggio in India 1975)
Con questo articolo si conclude il viaggio in oriente tratto dal diario di bordo del dr. Alberto Barbieri. Il fondatore dell’Arca autore del testo e delle fotografie ventisette anni fa insieme ad altre trentuno persone realizzò un sogno per quell’epoca. Raggiungere l’India in camper
di Francesca Tania Tancredi
Per tornare in Italia siete nuovamente passati per Lahore?
“Si, l’abbiamo ben visitata e, stanchi, per tornare in albergo, ci siamo serviti di un taxi sui generis: un carrettino a cavallo, sul quale uno dei passeggeri siede a cassetta vicino al cocchiere, mentre gli altri due bilanciano il peso anteriore, sedendosi su una panchina trasversale posteriore. È come se ci si trovasse su un’altalena che risente delle impennate del cavallo.”
So che avete avuto problemi con un Fiat 238!
“Si, il proprietario si era dimenticato che oltre alla benzina a buon mercato, i motori a scoppio hanno bisogno anche dell’olio, incurante dell’accensione della spia rossa, ha incollato le fasce dei pistoni. Il motore zoppicava e fumava, proprio mentre stavamo attraversando una delle zone più fertili, tra i fiumi Ravi e Chenab, affluenti dell’Indo. Abbiamo sostato nella cittadina, dove, dietro un compenso di sessantamila lire, hanno provveduto a fare delle prolunghe alle candele ed alla loro sostituzione. Ci avevano assicurato che così facendo il motore avrebbe percorso almeno cinquecento chilometri, senza bisogno di pulizia. Siamo ripartiti e la strada è diventata orribile.
Era asfaltata, ma il cedimento del sottofondo, molto argilloso, produceva smottamenti e buche profondissime nel manto stradale. Per lunghi tratti si avanzava in prima cercando dove era possibile di non battere il sottocoppa dell’olio sulla strada. Abbiamo incrociato e siamo stati superati da lunghe file di autocarri che, per il grosso diametro delle ruote si trovavano avvantaggiati rispetto a noi e così potevano facilmente superare le anomalie della strada. A notte fonda siamo arrivati presso un posto di blocco della polizia: una tenda da campo in cui si trovavano quattro soldati, un tavolino, una sedia e una lampada a petrolio.
Ci hanno fermati per un controllo, poi ci hanno dato il via libera. Ho approfittato per chiedere informazioni su un possibile posto dove passare la notte. Sono stati molto gentili, ci hanno offerto ospitalità nello spiazzo retrostante il posto di blocco. Il giorno seguente, siamo partiti all’alba. Era buio e facevo andare avanti il malandato Fiat 238, che a stento sono riuscito a far ripartire, allo scopo di non obbligarlo a mantenere la velocità di colonna che avrebbe potuto a volte essere troppo forte e a volte insufficiente, per un motore zoppicante. Purtroppo, questa precauzione si è trasformata in una trappola, perché la foga del conducente, preoccupato solo di non far spegnere il motore, solo dopo pochi chilometri, gli ha fatto centrare con la ruota anteriore sinistra, non una buca, ma una vera voragine, scardinando tutto l’avantreno. Così lo abbiamo trovato con una ruota a penzoloni nel bel mezzo della strada. Eravamo vicini a Uch. Abbiamo cercato di riparare il danno, pensando che si trattasse di una rottura al semiasse e dello sgabbiamento del giunto omocinetico (che avevamo come pezzi di ricambio) ma purtroppo era il semitelaio che aveva ceduto per il tremendo urto.
Dopo varie consultazioni, onde evitare che una riparazione mal fatta potesse pregiudicare l’efficienza futura del mezzo, abbiamo deciso di caricarlo su un autocarro e trasferirlo a Carachi, dove alla Fiat sarebbe stato possibile o sostituire tutto il semitelaio o imbarcarlo direttamente per l’Italia. Inutile riferire sulle peripezie di questo trasferimento e sulle difficoltà di caricare un autocaravan su un autocarro, senza l’aiuto di un piano caricatore e con pochi millimetri disponibili per lato! Per la cortesia del buon Dr. Li Destri, che è venuto a Carachi a riprendere me, i due coniugi che viaggiavano sul 238 sinistrato e le loro indispensabili masserizie, siamo rientrati a Sukkur con il camper Fiat 242. Lì ho trovato un’altra novità: un equipaggio; che aveva precisi doveri di lavoro, era ripartito e sarebbe rientrato da solo. Ero molto in pensiero, perché dopo pochi chilometri, sarebbe passato per il Belucistan che, oltre ad essere una zona turbolenta, era quasi priva di strade per circa seicento chilometri. Come se la sarebbe cavata? Aveva con sè tre bambini, uno di appena quattro anni!
Mi diceva che eravate indecisi se fare ritorno attraversando l’Afghanistan o se passare per il sud attraverso l’Iran!
“Ci trovavamo a Quetta, un bivio importante per due diramazioni: una per il nord, che entra in Afghanistan e va ad allacciarsi a Kandahar, città che già conoscevamo perché attraversata nel viaggio di andata; e l’altra per il sud. Una insidiata dalle altitudini e dal gelo; l’altra dalla mancanza di strade vere e proprie e resa insicura dal periodo contingente, poiché proprio nei giorni del nostro passaggio era stato destituito dal Governo Centrale di Islamabad, Il rappresentante del Governo, niente meno che per combutta con i ribelli! Avremmo potuto avere qualche sgradita sorpresa o essere coinvolti nostro malgrado in qualche sparatoria tra militari e ribelli. Il freddo era un nemico sicuro che metteva paura a tutti e quindi avevamo optato per il sud.
Ci raggiunse però, mentre eravamo a Quetta, un colonnello della polizia, capo del servizio antidroga, che avevamo conosciuto a Sukkur, avevamo fatto amicizia e ci aveva regalato anche una bottiglia di liquore locale che avevamo religiosamente diviso un giorno che eravamo particolarmente giù di tono per la disavventura occorsa al nostro amico di Firenze e per l’avvenuta partenza dell’equipaggio di Ambrosi. Il colonnello, benché maomettano, aveva un debole per l’alcool e ogni sera si presentava con i segni inequivocabili prediletti da Bacco e maledetti da Allah! Questo colonnello era venuto appositamente perché abbandonassimo l’idea di passare per il sud, asserendo che da sue dirette informazioni, le strade che avevamo fino ad allora percorso potevano considerarsi dei tappeti, se confrontate con quelle che ci aspettavano.
Dopo aver percorso altri centonovanta chilometri siamo arrivati a Dalbandin, un paesino in pianura, costituito da baracchette in fango e sterco di vacca, tutte del colore della terracotta, con il tetto piatto su cui, non ci siamo spiegati il perché, viene seminata l’erbetta. Le abitazioni sono protette nel loro complesso da un muro, dell’altezza di circa due metri, costruito con lo stesso materiale. Poco distante un antico Rest House, con un picchetto di polizia. Abbiamo chiesto ed ottenuto subito dal comandante, che si sentiva evidentemente assai superiore alla truppa, anche perché conosceva quattro parole di inglese, ospitalità ed acqua.
Abbiamo pagato quanto richiesto e ci ha fatto capire che il percorso da Dalbandin a Nok Kundi, che ci attendeva per l’indomani, per circa centosessanta chilometri fino al simbolico confine con l’Iran, non era sicuro, si svolgeva su piste ed i ribelli si erano organizzati in quella zona, assalendo le guarnigioni governative. Aveva avuto ordine dal suo comando di scortarci per tutto il percorso. A Carachi, il Console Dr. Archidiacono, ci aveva manifestato la sua preoccupazione per il nostro viaggio nella parte estrema del Belucistan. Per nostra e sua tranquillità, aveva trasmesso un telegramma al governo di Islamabad, preavvisando il nostro passaggio verso la metà di gennaio e richiedendo le necessarie misure cautelative.
Analogo telegramma aveva trasmesso al Governo di Teheran, preavvisando il nostro arrivo a Zahedan, provenienti dalle piste,del Belucistan. Io naturalmente mi ero guardato bene dal comunicare ai miei amici di viaggio quanto mi aveva detto il comandante, onde evitare nella nottata, inutili ore di insonnia ed agitazioni. I telegrammi avevano ottenuto l’effetto desiderato e il 13 gennaio abbiamo dovuto rimandare la partenza alle ore 7.00 e su ogni mezzo, vicino al conducente hanno preso posto uno o due uomini, armati di mitra di produzione inglese, equipaggiati del loro enorme zaino comprendente, oltre gli indumenti personali, alcune scatolette di viveri ed un enorme sacco-letto imbottito in cotone.
Gli uomini erano così autosufficienti e pronti a sostare anche per qualche giorno fuori del distaccamento. Meglio non descrivere troppo a fondo l’odore degli uomini e dei loro zaini. Non conoscevano altra lingua che il loro dialetto, era impossibile ogni spiegazione o informazione. Erano in genere molto disciplinati e rispettosi, anche se qualcuno masticava in continuazione qualche foglia verde in cui aveva versato della polverina bianca, forse della droga. Poi per tale masticazione, avevano bisogno di liberarsi della saliva ed espettoravano liberamente nella cabina. Io sono stato fortunato, perché essendo capo-colonna, il comandante mi aveva certamente assegnato il più civile, che non cianciava porcherie!”
Così avete proseguito fino al confine con una scorta?
“A Nok Koundi c’era una specie di dogana tra Pakistan ed Iran, dico una specie, perché lì si svolgevano le pratiche doganali e si timbravano i camets de passage, ma il confine vero e proprio si trovava a circa centotrenta chilometri e si doveva attraversare questa zona considerata terra di nessuno. Nel frattempo si era fatta sera e poiché ci avevano impedito di sostare presso la dogana ci accomiatammo dal drappello dei sedici uomini che ci avevano accompagnato e il cui comandante aveva respinto ogni mancia. Ci presentarono le armi, ci stringemmo la mano, fotografammo la scena e li ringraziammo di vero cuore.
Ripartimmo per la terra di nessuno. Prima che diventasse buio vidi in pieno deserto una zona che faceva al caso nostro e dopo essermi fermato ed aver illustrato a tutti gli autisti il modo per ottenere il cerchio all’indiana, riuscii a far posizionare i mezzi in modo da far toccare tutti i paraurti anteriori con quelli posteriori e ci fermammo. Mentre le donne si dedicavano alla preparazione della cena, i più volenterosi si davano da fare per racimolare un po’ di spine rinsecchite che vegetano nel deserto. Con un colpo secco dato con la punta della scarpa, si ottiene la rottura netta dello stelo spinoso. Ammucchiammo le spine al centro del nostro cerchio. Dopo la cena facemmo il fuoco alimentandolo con qualche barattolo di nafta.
Era uno spettacolo suggestivo, anche se qualcuno non nascondeva il proprio disagio per esserci accampati così lontani da ogni essere vivente. Cantavamo allegramente, forse anche per darci coraggio e purtroppo nessuno disponeva di qualche liquore che sarebbe servito a tener alto il morale ed anche il fisico che stava soffrendo il freddo per il rapido abbassarsi della temperatura. Uno dei nostri meccanici, l’ex campione italiano di nuoto Aldo Fioravanti, come tutte le sere stava facendo la doccia fredda. Si era portato fuori del cerchio degli automezzi ed in costume adamitico, con un secchio d’acqua, compiva l’abluzione di rito prima di coricarsi. Ad un certo punto mi chiama con una voce strana, eccitata. Scavalco i paraurti, giacché è impossibile il ben che minimo passaggio tra un mezzo e l’altro e mi dice di scorgere nel buio numerose persone che si avvicinano per accerchiarci. Debbo abituare la vista al buio assoluto per riuscire a rendermi conto che ciò che aveva visto rispondeva a verità. Fortunatamente non ho dato l’allarme, che non sarebbe servito a nulla, essendo noi tutti disarmati, e nel buio senza luna nella piattezza del panorama riesco a scorgere la sagoma di due grossi autocarri. L’incubo dura poco: due uomini si stanno indirizzando verso di noi e si avvicinano rapidamente, mentre io e Fioravanti continuiamo a parlare forte in italiano per farci sentire e i nostri amici, ignari di quanto sta accadendo continuano a cantare, guidati dalle voci argentine dei coniugi Carrara di Firenze. I due, un capitano e un tenente dell’esercito regolare pakistano, sono in perlustrazione ed accendendo una lampada la puntano su di noi. Il capitano parla perfettamente l’inglese e ci spieghiamo in due parole, convincendolo che non siamo ribelli.
Dà ordine con parole secche ed incomprensibili ai propri uomini che avevano quasi completato l’accerchiamento di ritornare agli automezzi e ci assicura che non corriamo alcun pericolo, perché la loro pattuglia ed altre ancora, saranno nella zona per tutta la notte. Silenziosi, come sono venuti se ne vanno. Solo da queste righe i nostri amici verranno a conoscenza dell’accaduto, che ho volutamente taciuto per evitare preoccupazioni future che non avrebbero potuto giovare in alcun modo; quali attimi tremendi abbiamo passato! Abbiamo proseguito verso il confine iraniano. Alla pista era subentrata una specie di strada. L’automezzo sbandava in continuazione e si cercava di regolarne la direzione sopratutto con l’accelerazione, si marciava in prima e in seconda. Per percorrere ottanta chilometri impiegammo cinque ore! Ad un certo punto avevamo ritrovato l’asfalto. Evviva! L’equipaggio che ci aveva preceduti aveva lasciato su un palo un messaggio di saluto. La gioia durò poco e dopo qualche chilometro riprendemmo sulla pista, però migliorata. In lontananza si scorgeva una casa, ci stavamo avvicinando sicuramente a qualche villaggio e, come un miraggio, vicino alla casa che doveva essere stata in passato un forte o un caravanserraglio, notammo una roulotte. Era da Delhj che non incontravamo alcun mezzo del genere! Era una roulotte Eccles, targata GB. Una scritta postuma e ben grossa diceva: from GB to India, ma la previsione non si era avverata. Due fogli di carta scritti in inglese, appiccicati con carta gommata, uno sul vetro anteriore e uno su quello posteriore, dicevano: si prega di non entrare, stiamo provvedendo alla riparazione. Infatti la roulotte, che doveva essere nuova, aveva perso la ruota destra con tutta la sospensione e ciò dopo soli cinquanta chilometri di pista. I locali non conoscevano l’inglese e non hanno potuto rispettare la preghiera dei proprietari. Hanno forzato la porta e sono entrati asportando tutto quanto era asportabile: materassi, lavello, secchio igienico, specchi. Era rimasto solo un bidoncino di quel liquido azzurro a completamento dei secchi igienici.”
Una volta in territorio iraniano avete avuto problemi?
“Al bivio di Ormak siamo stati fermati da un drappello di polizia che ci ha chiesto i documenti. Volevano assicurarsi che eravamo proprio la colonna preavvisata dal Console Italiano di Carachi. Hanno fatto scendere a pochi metri da noi un elicottero che da qualche chilometro volteggiava sulla nostra colonna. Siamo stati investiti da una pioggia di sassi e di sabbia, sollevata dalla rotazione delle pale e quando l’elicottero è ripartito, aumentando l’intensità della sassaiola abbiamo pensato con rammarico che, come scotto per la sicurezza, sulla carrozzeria sarebbero rimasti per sempre i segni. Un aereo militare si è poi aggiunto all’elicottero ed ambedue ci hanno accompagnato sorvolandoci a bassa quota.”
Considerando le strade in pessime condizioni, avete avuto qualche ripensamento per la vostra scelta?
“Direi di no visto che da un conducente che masticava l’inglese abbiamo saputo che la televisione aveva trasmesso lo spettacolo di centinaia di automezzi bloccati per dieci giorni sulla strada del nord. Fortuna che avevamo scelto il sud! Ci ha riferito che c’erano tre metri di neve e temperatura -32°.”
Avete avuto difficoltà alla frontiera fra Iran ed Iraq?
“Ci siamo trovati di fronte ad un cancello in ferro, simile a quello di una villa, chiuso con una catena e un lucchettone; nessuna indicazione. Pensavo di aver sbagliato strada e feci il giro della piazza, naturalmente seguito dagli amici che non ci si raccapezzavano neanche loro. Seguendo una piccola freccia che segnalava Bagdad, ci ritrovammo davanti al cancello. Era quella l’unica via invernale per l’Iraq. Durante la buona stagione ne esisteva anche un’altra, verso il sud da prendere dopo Schiraz ma attraversava una zona paludosa che nel periodo della stagione cattiva si trasformava in un immenso stagno, invalicabile anche dagli automezzi a trazione integrale. Dormimmo a pochi metri dal confine e ci dissero che gli uffici doganali sarebbero stati aperti alle 8.00. A quell’ora eravamo tutti pronti con carnets e passaporti in mano.
Eravamo i primi e avremmo dovuto sbrigarci subito. Illusione: dolce chimera! Il lucchetto del cancello restò chiuso e solo alle 8.30 incominciarono a vedersi le prime persone, quelle che non avevano alcuna importanza. Attendere l’arrivo del capo, ci rispondevano; questa era la parola d’ordine generale che sgonfiava tutti i nostri entusiasmi ed anche la camera d’aria di un Ford! Riuscimmo a riparare il danno mentre attendevamo l’auspicata apertura. Alle 9.30, finalmente ci fecero entrare, non con gli automezzi, ma a piedi. Mancava ancora il capo e nessuno si poteva assumere la responsabilità di fare qualunque cosa. Infine giunse anche lui, un tenente, su una fiammante Mercedes e incominciarono gli adempimenti. Solo alle ore 14.00, potemmo passare attraverso un altro cancello, simile a quello di entrata, che ci immise in territorio iracheno.”
Siete passati per Bagdad?
“Si, ci siamo trovati in un larghissimo viale alberato dove le auto sfrecciavano veloci. Ci siamo fermati con l’intenzione di farci guidare al camping da un taxi, ma l’autista non capiva una parola d’inglese ne di francese.
Lo stesso risultato ottenemmo col secondo e terzo mezzo pubblico che riuscimmo a fermare. Mentre cercavamo di farci capire si era fermata una macchina della polizia. Molto gentilmente un tenente che parlava francese, spiegò all’autista cosa stavamo cercando e la via da seguire. Dietro front e circa 15 chilometri di strade affollatissime, tumultuose ma con circolazione ordinata. In periferia trovammo il camping e l’autista pretese il corrispettivo di diecimila lire italiane per averci fatto da guida. Stavamo rientrando su valori europei o stavano approfittando del fatto che siamo europei? Era questa la verità che scoprimmo il giorno seguente. La città è a cavallo dell’immenso Tigri, che la taglia letteralmente in due. Il camping è situato a nord est, in fondo al rettilinio dell’Anny Canal, quasi sulle rive del fiume, in uno stupendo palmizio. È senz’altro il più bel campeggio che abbiamo trovato nel nostro viaggio. Il visto che avevamo ottenuto a Bombay era per tre giorni e sostammo un giorno e mezzo a Bagdad. Passammo a piedi per la Jummhurry Street e la Sa’Adun; le due vie centrali, dove si possono ammirare le uniche cose belle che ci sono nella capitale: la Moschea d’oro, che si può ammirare solo dall’esterno, perché è vietato severamente l’ingresso ai non musulmani, ed un grande arco in cemento armato di forma semi-ovale dedicato al Milite Ignoto.”
Avete proseguito per Damasco?
“Si, una città in parte antica e in parte in via di sviluppo: sensi unici, semafori, molta cortesia e inneggiamento al partito comunista con manifesti murali; anche in Iraq avevamo osservato la medesima cosa. Riuscimmo a sostare nella piazza principale, assaliti subito dal primo posteggiatore abusivo che pretese una tangente per la sosta. Era il più bel segno che ci stavamo avvicinando alla nostra Roma. Chissà se i posteggiatori siriani sono una ramificazione dei nostri o se i nostri sono una esportazione della Siria! Al termine della giornata, riesco ad andare a visitare la Moschea Vecchia, dove si dice siano conservate le reliquie di San Paolo, venerate anche dai musulmani e vedere la porta romana dalla quale si dice che San Paolo fuggisse, evadendo dal carcere racchiuso in una cesta, prima che riuscissero a riprenderlo e ad ucciderlo. La città così affermano è vecchia di quattromila anni e sarebbe la più vecchia del mondo.”
Ad Aleppo avete sostato in un camping?
“Si, la sosta a questo campeggio, unico nella città, è sconsigliabile sotto ogni punto di vista ed è stato un vero castigo di Dio. Caro, inefficiente, posto proprio davanti ad un posto di blocco notturno della polizia, così che di notte tutti gli autocarri fermati, ripartendo, con i loro scappamenti inesistenti; svegliavano tutti i dormenti. Dulcis in fundo, uno dei nostri compagni di viaggio che aveva voluto fare il furbo ed aveva pagato un prezzo ridotto per l’acquisto di venti litri di nafta, si è accorto, dopo averla vuotata nel serbatoio, che la nafta non era altro che acqua di rubinetto. Conclusione abbiamo dovuto vuotare tutto l’impianto, ritardando così la partenza mia, quello del motocaravan dei meccanici e quella naturalmente del furbacchione, di oltre tre ore, lavorando sotto la pioggia. Il nostro amico, ritenendo di essere stato truffato, ha fatto intervenire la polizia che sostava nei pressi ed ha avuto, come era logico, la gioia di sentirsi dire che c’era stato un malinteso e che il ragazzo che aveva riempito la tanica di acqua, pensava che si trattasse di una buona mancia! Senza commenti. Abbiamo cercato di raggiungere la colonna che aveva un anticipo di tre ore. L’appuntamento era al confine con la Turchia, ma mancando Adolfetto, così ero stato ribattezzato, la coesione era andata a farsi benedire e ciascuno faceva il proprio comodo. Un equipaggio, malgrado tutte le ricerche, si era polverizzato. Lo ritrovammo cento chilometri più avanti perché, ritenendo di essere l’ultimo, era corso avanti!”
Avete proseguito per Efeso?
“Si, è una città veramente interessante, molteplici sono state le invasioni che ha subito. Fin dal IX secolo a.C., si avvicendarono Sparta ed Atene che si contendevano la città; poi fu la volta degli Egiziani e dei Siriani ed infine dei Romani che diedero un impulso eccezionale al commercio, ottenendo un benessere fino ad allora sconosciuto, che fece meritare ad Efeso la nomea di banca dell’Asia. Merita una visita la chiesa di San Giovanni (qui infatti il prediletto apostolo di Cristo passò la maggior parte della sua vita), la casa della Madonna, dove sembra che la Vergine abbia passato gli ultimi suoi anni, prima di essere assunta in cielo. Da dedicare almeno mezza giornata alla città antica, che dista un paio di chilometri dalla città moderna e visitare la cittadella, il Teatro Grande, eccezionale per la sua acustica e per la fattura, oltre che dei posti riservati agli spettatori, per la completezza dei servizi del palcoscenico. Il Mercato-Agorà, il Museo e tutto un susseguirsi di meraviglie che abbiamo apprezzato forse perché di templi e di moschee ne abbiamo fatto indigestione, uno scenario incantato, sullo sfondo un mare cristallino, blu cobalto che ci fa desiderare l’estate.”
Come è andata la traversata per l’Italia?
“Una traversata veramente difficile, con forza sette ed otto, all’ingresso del Canale di Otranto. Qualcuno aveva preso la cabina, ma la maggior parte aveva passato la notte sotto coperta, nelle comode sdraio allungabili. Il mal di mare ha sottoposto quasi tutti ad una giornata veramente penosa e anche i leoni del deserto, coloro i quali si erano comportati da veri uomini durante tutto il viaggio, hanno ceduto abbacchiati e hanno giurato che in un prossimo eventuale viaggio avrebbero fatto cinquemila chilometri di strada in più piuttosto che una giornata di mare. Facce smunte, occhi cerchiati, mai avevo notato tanta sconsolata desolazione fra i miei compagni dei cento giorni di viaggio. Finalmente ecco Brindisi! Nessuna speciale formalità di dogana. Sul molo scorgiamo alcuni parenti che non avevano saputo attenderci a Pomezia ed avevano anticipato la gioia dell’incontro. Abbiamo sostato per la notte nel camping San Giorgio a Bari. Tutto in ordine, tutto pulito! Bar funzionante, supermarket aperto, anche se eravamo fuori stagione. Lo scenario marino incomparabilmente bello. Dulcis in fundo il proprietario del camping, dr. Interesse, saputa la nostra provenienza con squisita sensibilità ci ha offerto il pernottamento. Il primo abbraccio della patria non poteva essere più affettuoso. Era il 9 febbraio e rientravamo a Pomezia. Gran festa in piazza al nostro arrivo. C’era metà del paese ad attenderci. Fiori, abbracci, baci anche da persone assolutamente sconosciute. Una cosa commovente! All’italiana, in casa mia, abbiamo chiuso con un pranzo casalingo e con una bella bevuta di biondo Frascati. Tutti contenti e felici, in pochi minuti abbiamo dimenticato tutti i contrasti, le pene, gli attriti che una convivenza così prolungata avevano creato.
Programmi per il futuro?
L’Africa fino a Città del Capo, ma in gruppi autonomi di non più di cinque equipaggi. Infatti non desidero finire i miei giorni in manicomio!