Regaliamo indumenti ai più piccoli mentre l’anziana ci spiega
l’andamento della pista principale tracciando ipotetiche traiettorie
sulla sabbia e parlando la vecchia lingua dei Tuareg: il Tamanghesh.
di Maurizio Turco
L’ultima volta che abbiamo visitato l’Algeria fu il lontano 1991 in sella a vecchie Yamaha XT 600 con pochi ricambi ed una grande sete di avventura. Poi il lungo periodo buio dell’integralismo islamico, con le sue guerre intestine che hanno spinto l’economia turistica del paese nel baratro del fallimento.
Dal 1998, però, il nuovo Presidente algerino è riuscito a sedare la rivolta interna, con metodi più o meno leciti, segnando una netta ripresa per il turismo sahariano che si riaffaccia in questo paese per poter godere di quella natura incontaminata e straordinaria che il Deserto del Sahara cela gelosamente e che mostra solamente al vero viaggiatore e non al turista “mordi e fuggi”!
Superata l’ultima oasi della Tunisia, l’incantevole Nefta, arriviamo con i nostri 8 equipaggi 4×4 alla dogana algerina, subito dopo l’ultimo avamposto tunisino di In Hazoua, per espletare le normali pratiche doganali. Questa volta siamo fortunati e con un paio d’ore siamo già sulla strada asfaltata diretti alla volta della prima oasi algerina: El Oued.
In questo piccolo villaggio riusciamo ad effettuare il primo cambio… in nero e a gustare il primo cous cous, a dir poco delizioso.
La popolazione è stanca del lungo periodo di isolamento inflitto dalla guerra civile ed ora è curiosa di parlare con lo “straniero” per sapere come è la vita fuori dai propri confini.
Per questo motivo siamo sempre ben accetti in qualsiasi situazione e luogo o invitati continuamente dalle persone con cui entriamo in contatto.
Il popolo algerino, nel mondo arabo, è famoso per la sua gentilezza ed ospitalità e ne abbiamo una continua riprova in ogni luogo toccato durante il nostro itinerario.
Dopo 300 km arriviamo ad Hassi Messaoud, centro che trae linfa vitale dagli innumerevoli pozzi petroliferi e di gas che proliferano nel deserto circostante. Tutta la zona è un immenso cantiere dove hanno base tutte le più grandi compagnie petrolifere del mondo. Il villaggio non è che un enorme dormitorio per gli operai europei, che lavorano nelle basi e che trascorrono turni di lavoro di sei mesi prima di tornare a casa, per qualche settimana di ferie. Qui ci rechiamo presso la stazione di Polizia per richiedere il permesso di circolare nel sud del paese, fornendo tutti i dati del gruppo e dei mezzi. Svolta quest’ultima formalità, ci avviamo velocemente verso il nostro appuntamento: l’incrocio dei “4 Chemins”.
Da qui inizia la nostra grande avventura e subito ritroviamo i chiari segni che la grande crisi turistica degli anni ‘90 ha lasciato dietro di sé. Infatti questa era una vecchia pista, molto usata sia dai locali che dai turisti, per dirigersi verso sud ed evitare il noioso asfalto della transahariana, ma allo stato attuale si stenta ad intercettarla proprio per il “disuso” in questi ultimi anni. Per procedere su quest’immensa piana a perdita d’occhio bisogna ricorrere al GPS e alle cartine topografiche russe.
Ogni tanto incrociamo un vecchio bidone arrugginito testimone del copioso traffico del passato, assieme a qualche carcassa d’auto. Attraversiamo un’ampissima vallata senza confini e riferimenti… praticamente viaggiamo nel nulla più assoluto per un giorno intero fino ad arrivare ad un passaggio obbligato: le gole di Amguid.
Quest’ultimo è un piccolissimo villaggio di zeribe con una postazione militare, stretto fra una catena di enormi dune alte più di 200 m ed una falesia rocciosa altrettanto elevata, con un intrigante canyon dentro il quale inizia una vecchia pista che si dirige verso est. Ci accolgono vocianti bambini e gentilissimi militari presso i quali svolgiamo le solite operazioni di registrazione del gruppo, regaliamo i primi giocattoli e i vestiti portati appositamente per queste occasioni.
La gioia dei piccolissimi è palpabile e si crea una simpatica kermesse nel villaggio! Ci congediamo dalla popolazione cercando di recuperare il tempo perduto nella sosta, visto che ci aspettano altri 400 km per arrivare all’unico passaggio che ci permetterà di scavalcare i primi contrafforti della catena montuosa dell’Assekrem.
Si susseguono ore di navigazione pura, senza ombra di tracce precedenti, cercando punti sul suolo per far passare i nostri fuoristrada, visto che la sabbia ha lasciato il posto a impegnativi passaggi fra enormi massi ed altrettante spianate di fech fech (sabbia impalpabile e pericolosissima).
Incontriamo numerose gazzelle e dromedari, unici abitanti della desolitassima zona. Scopriamo un vero e proprio cimitero di alberi secolari completamente secchi, bruciati dal sole e disposti su collinette di sabbia alte circa 3-4 metri, testimoni di un grande lavoro di erosione compiuto dagli agenti atmosferici.
Dopo un travagliato procedere di valle in valle, arriviamo all’imbocco dell’unico e lungo oued sabbioso che ci permetterà di scalare l’enorme montagna, di oltre 2000 metri, che si staglia davanti a noi.
La salita si dimostra subito impegnativa poichè si sale su uno strato molto morbido di sabbia, seguendo il tipico andamento montuoso con tanto di tornanti! Molte sono le rocce che affiorano, assieme ad alberi che sbarrano spesso la traiettoria migliore, rendendo difficoltoso raggiungere un tratto di pista più sassoso dove possiamo tirare un sospiro di sollievo.
La fretta di uscire dall’oued ci porta ad imboccare una pista secondaria che conduce nel bel mezzo di un piccolo villaggio abitato solamente da donne e bambini. Dopo i primi secondi d’imbarazzo e stupore reciproco, ci avviciniamo alla più anziana del gruppo che, davanti alla sua capanna, ci accoglie con un sorriso. Regaliamo indumenti ai più piccoli mentre l’anziana ci spiega l’andamento della pista principale tracciando ipotetiche traiettorie sulla sabbia e parlando la vecchia lingua dei Tuareg: il Tamanghesh. Le informazioni ricevute ci permettono un grande taglio sul percorso così da raggiungere la vetta dell’Assekrem a 2400 m con un giorno di anticipo. Questa vetta è famosa per la bellezza del paesaggio circostante costituito dalle cosiddette “canne d’organo” ossia pinnacoli di roccia che al tramonto si vestono di un arancio fuoco rendendole uniche nel loro genere.
Proprio su questa vetta si trova l’eremo di padre Focault, eremita di inizio secolo che era riuscito a guadagnarsi la stima ed il rispetto dei Tuareg che abitavano la zona.
Da qui scendiamo per una pista spettacolare in direzione Tamanrasset, antichissima oasi e centro carovaniero che sulla spinta del grande turismo di fine anni ottanta aveva perso un po’ del suo antico fascino, in nome delle comodità del “progresso”.
Qui finalmente possiamo fare una doccia calda e consumare un pasto in un tipico ristorantino locale.
Il souk di quest’oasi mantiene ancora la sua antica fisionomia.
Certo l’argento dei monili è stato rimpiazzato da leghe “meno nobili”, ma comprare un gioiello o una croce del sud nel mercatino fa sempre piacere ed acquisterà un valore inestimabile, una volta tornati in Italia. Il giorno dopo, “salpiamo” alla volta della mitica oasi di Djanet, seguendo inizialmente la pista principale che attraversa un’immensa vallata di sassi neri e canyon devastati dalle rare piogge che si riversano sul terreno con cadenza annuale.
Dopo circa cento km ci stacchiamo da questa pista all’altezza del forte Serenout, appartenuto alla legione straniera francese, da pochissimi anni utilizzato dai militari algerini come posto di controllo.
Consegnamo le solite liste con i dati del gruppo e poi via verso il passaggio nell’Erg Admer.
Dal fortino parte una vecchia pista che si inoltra su immensi pianori dove l’unico confine sono la sabbia ed il cielo! Navighiamo per un paio di giorni esclusivamente con l’ausilio del GPS.
Incontriamo numerose tracce di veicoli che si dirigono verso sud, fuori dai confini algerini per traffici sicuramente poco leciti, infatti è ancora molto diffuso il contrabbando di manovalanza nera, sigarette ed altre merci.
Attraversiamo un immenso catino sabbioso con una curiosa formazione rocciosa nel bel mezzo, visibile da diverse decine di km prima. Avvicinandoci a questa roccia scopriamo che è formata da 4 enormi massi con le basi che mostrano i chiari segni di erosione del mare, unico dominatore indisturbato all’alba dei tempi.
Vi rinveniamo, infatti, con enorme stupore coralli fossili e bellissime conchiglie… il deserto non finisce mai di stupire!
Riprendiamo l’ itinerario e puntiamo i 4×4 in direzione est, e precisamente, verso le enormi dune dell’Erg Admer, lungo circa 250 km, che si intravede all’orizzonte.
Dopo circa 600 km di pista sabbiosa, vallate nere coperte di lava e piane a perdita d’occhio dobbiamo trovare il punto di attacco dove iniziare la scalata della grande duna Tahort alta più di 200 m. Il relitto di una vecchia Land Rover, precedentemente segnalatoci da un locale, è il nostro punto di riferimento, così prendiamo una veloce rincorsa per poter superare il pendio dell’enorme duna.
Il motore dei nostri veicoli viene letteralmente risucchiato dalla sabbia e non pochi sono i cambi di traiettoria per poter “recuperare” un po’ di motore e di slancio per continuare la scalata affannosa! Fortunatamente abbiamo a disposizione una vasta piana dove ognuno può scegliere la traiettoria migliore senza intralciare gli altri equipaggi.
La salita è avvincente e provoca in noi una scarica di adrenalina. Una volta in cima, si procede fra enormi vallate sabbiose e durante un disinsabbiamento di un 4×4 rinveniamo una tanica militare usata per il trasporto di carburante, datata 1947!
Indubbiamente il deserto custodisce gelosamente i suoi tesori. Si arriva all’oasi di Djanet nel tardo pomeriggio giusto in tempo per assistere ad un tramonto che veste la montagna di rosso fuoco!
Entrando nell’oasi constatiamo con piacere che nulla è cambiato, complice, forse, la crisi turistica degli anni ‘90. Camminiamo per il souk incontrando solamente abitanti del luogo e trascorriamo un paio di giorni secondo i loro ritmi di vita.
I discendenti degli antichi e fieri Tuareg, si muovono oggi su vecchie Toyota o Land Rover ma non hanno perso il loro fascino di “Signori del Deserto”.
È sorprendente come si possa ancora girare tranquillamente per le viuzze dell’oasi e nei vari negozi d’artigianato senza essere importunati o assaliti da curiosi o venditori.
Visitiamo i siti di graffiti rupestri della zona sui quali si può ammirare la rappresentazione della fauna del luogo molto lontana da quella dei nostri giorni come coccodrilli, giraffe e bufali. Ma il tempo è tiranno e noi dobbiamo iniziare la risalita verso nord. Imbocchiamo una vecchia pista che si snoda in una fantastica vallata dai mille colori ai piedi di una lunghissima falesia. Dopo aver percorso 80 km arriviamo al minuscolo villaggio di Imrhou immerso in un sabbiosissimo oued e con una sorgente d’acqua calda molto bella. Tramite la segnalazione di alcuni locali, proseguiamo su una pista che collegava molti anni prima il villaggio all’oasi di Illizi, ma ben presto constatiamo che ormai della vecchia pista ne rimane ben poco.
Scopriamo infatti, grazie ad un’incisione su una roccia che la pista era stata costruita dal cantiere Chantel nel 1937, purtroppo gli agenti atmosferici l’hanno completamente erosa.
Per coprire 10 km impieghiamo un giorno intero durante il quale tutto il gruppo è impegnato a guidare i propri 4×4 in passaggi trialistici, riempire enormi voragini e ricostruire passaggi franati.
Gli ultimi 40 km decidiamo di percorrerli direttamente nel sabbioso oued fra insidiosissime pozze d’acqua ed una vegetazione molto fitta.
Arriviamo ad Illizi dopo 3 giorni di fatiche e ci fermiamo solamente il tempo necessario per riparare le balestre di due fuoristrada che hanno mal digerito la pista precedente. Il giorno dopo siamo di nuovo in viaggio seguendo un itinerario che dalla carta si preannuncia avvincente e straordinario. La conferma dell’ottima scelta ci viene data appena usciti dall’oasi, perchè viaggiamo subito fra enormi canyons che si insinuano fra falesie dai mille colori ed enormi cordoni di dune. Il paesaggio sembra irreale, appartenente ad un altro mondo e ne approfittiamo per fare il campo su meravigliose dune rossastre.
Assistiamo anche allo straordinario fenomeno della fioritura del deserto… enormi dune coperte di fiori viola e gialli!
Uno spettacolo nello spettacolo. Incrociamo gruppi di gazzelle che scappano veloci come il vento ed una delle ultime carovane di cammelli, in prossimità di un pozzo situato vicino ad alcune tombe preislamiche.
Ne approfittiamo per parlare con il capo carovana… ma la discussione non va oltre i gesti visto che parla solamente un antico idioma della zona. Riusciamo con molta fatica a sapere che era arrivato al pozzo per far bere le sue bestie, dopo tre giorni di cammino e che era diretto verso una località che sulle nostre carte non si riusciva a localizzare.
Ci congediamo da lui dopo il solito rituale del thé e dopo un altro giorno di marcia ci ricolleghiamo alla pista che avevamo usato 20 giorni prima, in senso contrario, per scendere verso sud.
Così ci ritroviamo di nuovo all’incrocio dei “4 Chemini” a chiacchierare con il corpo di guardia formato da militari algerini e da qui iniziamo il lungo trasferimento, su asfalto, di 1200 km alla volta di Tunisi.
La vacanza volge al termine e la stanchezza accumulata in 20 giorni di deserto inizia a farsi sentire.
Siamo pieni di forti emozioni, sensazioni che difficilmente dimenticheremo e che ci accompagneranno fino alla prossima partenza, per ricominciare un’altra avventura alla scoperta di nuovi orizzonti! Insh’ Allah!