(3° parte di: Con Nanobus a Katmandu 1977)
E se andassimo in capo al mondo?
Chi non ha mai detto questa frase, in famiglia o agli amici, almeno una volta nella vita?
E così che un bel giorno, senza pensarci due volte, Christian e Marie-France Des Palliéres decidono di partire in camper, per l’India.
di Christian e Marie-France Des Palliéres
Carretti stracarichi di calzini variopinti, (Kabul 2 dicembre 1977) belli lavorati a mano dalle donne sui monti; maglioni trasportati in alte cataste, in precario equilibrio, sulla testa di piccoli venditori ambulanti; a ogni angolo di strada una profusione di mutandoni, guanti, berretti di lana: Kabul si prepara ad affrontare l’inverno.
Mi stringo contro Christian. “Comincia a fare davvero troppo freddo, non ti sembra?” Al risveglio, stamani, abbiamo il naso gelato e le guance infuocate. All’intemo del camper il termometro segna meno otto. Sui vetri si è formato un sottile strato di ghiaccio ed Eric, il nostro artista, ne ha immediatamente approfittato per disegnarci sopra. La neve, che già da qualche giorno imbiancava i monti attorno a Kabul, adesso – e ce ne accorgiamo uscendo all’aperto – è scesa fino a lambire le mura della città. “Ma cosa ci fanno loro qui?” Ferma, davanti a noi, c’e l’auto viola di Brian e Lesley! Lei siede in terra, in fondo al cortile, addossata al muro di cinta coi capelli in disordine e la faccia stravolta. Sulle sue ginocchia riposa il capo di Brian, che giace in terra, immobile. Sembra assopito. Li raggiungo correndo.
“Cosa è successo?” Con voce stanca, Lesley mi racconta il loro calvario: Brian che si ammala improvvisamente nel bel mezzo del Pakistan; in un misero, piccolo ospedale gli diagnosticano un attacco di malaria e lo curano di conseguenza; lui però peggiora di giorno in giomo, mentre le notti diventano angoscianti. Allora, di comune accordo, decidono di tornare di corsa in Inghilterra dove il loro medico, che conosce bene i disturbi di Brian e sa che soffre di diabete, lo curerà come si deve. “Mi sono messa al volante, ho guidato giorno e notte correndo quanto più potevo. Stamani, giunti a Kabul, mi sono precipitata in ospedale: gli hanno diagnosticato un’epatite virale, aggravata dal diabete. Ma ormai non mi fido più di loro.” Scoppia a piangere. “Adesso devo dormire un po’; più tardi riprenderemo la strada di casa.” Vogliono attraversare di nuovo l’Afghanistan, l’Iran, la Turchia? Con Brian in quelle condizioni? Evidentemente non ragiona.
Brian respira a fatica e il suo pallore mi spaventa. Christian gli misura il polso e poi si gira dalla mia parte. “Non possono assolutamente proseguire in automobile. Dobbiamo riportarlo con la forza a1l’ospedale di Kabul, oppure rimpatriarlo per aereo, immediatamente. Metti a scaldare un po’ di minestra. Io intanto corro a chiedere in quale giorno parte un volo per l’Europa.” Mentre con un cucchiaino cerco di fare bere qualcosa a Brian, Lesley ingoia due bei piatti di minestra, che sembrano rinfrancarla. Più calma, adesso pare rendersi conto dell’assurdità del suo progetto. “Si, però la dogana non ci lascerà mai passare, se prima non regolarizziamo l’automobile; e tu sai meglio di me che le formalità burocratiche portano via un sacco di tempo.
Oltretutto ci servirebbe un’autorizzazione sanitaria e siamo a corto di soldi…” Christian è tornato. “Domani parte un aereo per Teheran. Laggiù potrete salire su un volo diretto in Europa,” “Domani?!” Istintivamente mi viene da pensare: “Purché riesca a resistere fino ad allora!” Per non parlare dei tanti problemi da risolvere, e di tutte quelle pratiche da sbrigare. È stata una giornata campale. Tutti hanno dato una mano. Christian si è incaricato del certificato medico ed è andato all’Ambasciata britannica per sollecitare gli adempimenti burocratici. Nel pomeriggio è corso in dogana per provvedere all’automobile. Intanto, con l’aiuto di Tata Martha, Brian è stato sistemato in una stanza riscaldata.
Christian poi ha comprato da Lesley oggetti di ogni specie, assicurandole che ci sarebbero certamente tornati utili. Fra l’altro, si è dovuto correre dietro a un acquirente per l’auto e pensare al cane Ankara. Di tanto in tanto Brian riprendeva conoscenza e tentava addirittura di scherzare, e ogni volta provavo una stretta al cuore.
A sera, ha preso una mano di Christian fra le sue. Stavolta, e per la prima volta, non l’ha buttata sul ridere. Faticava a parlare. “Mi dispiace causare tanto disturbo… e mi rincresce per Lesley.
Capisco bene che è stata una follia… Ma, una volta nella vita… Valeva pur sempre la pena, ti pare?” Con una pacca sulle spalle, dietro la quale intendeva celare la commozione, Christian lo ha salutato e gli ha dato appuntamento davanti a un bicchiere di birra, a Parigi o a Londra.
Christian
Kabul 4 dicembre Armato di carte geografiche, chiamo tutta la famiglia a raccolta. “Ebbene, ormai dobbiamo deciderci sul serio!” esordisco. “Penso anch’io, come mamma, che convenga lasciare Kabul. Il freddo comincia a farsi sentire fin dentro Nanobus ed entro poco tempo lo sentiremo ancora di piu!” L’assemblea mi guarda costernata. “Ma Tata Martha ci vuole con sé per Natale!
Potremmo partire subito dopo” implora Caroline. Me l’aspettavo. So che, da diversi giorni, Tata Martha va accarezzando l’idea di farci cantare durante il cenone di Natale. Perciò ogni mezzo è buono pur di convincerci a rimanere fino ad allora. Ha cominciato col ricordare, calcando non poco la mano, tutti i gravi pericoli cui andremmo incontro in India: dal devastante ciclone abbattutosi di recente su Madras e la sua regione, all’epidemia di malattie infettive che ha gia mietuto migliaia di vittime; senza contare, poi, che in quest’epoca il Passo Khyber, già di per sé temibile, e quanto mai insicuro…
“Tata Martha dice che al cenone verrà servito il tacchino, e anche il tronchetto di cioccolato” proclama Bertrand. “E dice che i regali saranno tanti” si lamenta Eric.
Così stanno le cose, dunque! “Ho capito. Bene, ascoltatemi attentamente… Non so dove ci troveremo la sera della vigilia, ma vi prometto che anche noi faremo festa, e grande!”
8 dicembre Appollaiati nel cortile sopra gli oggetti più svariati e più strani trasformati per l’occasione in sedili e scrittoi, i bambini compilano ciascuno il proprio diario.
Con il passare del tempo, spostano l’attrezzatura inseguendo gli ultimi sprazzi di sole che ancora addolciscono l’aria gelida della sera incombente…
Sdraiata, pancia a terra, Caroline, la secchiona di casa, è tutta intenta agli studi di un’ipotetica seconda media. Nel caso di Bertrand si tratterebbe della prima media. Intelligente, sempre pronto ad appassionarsi per qualsiasi cosa, quando però si trova un foglio bianco sotto il naso, comincia a mangiucchiare la penna, a grattarsi il capo… e assume l’aria più idiota di questa terra. Isabelle frequenta la seconda elementare.
È l’alunna ideale per ogni insegnante: vuole fare tutto, sapere tutto, partecipare a tutto. Infine, Eric: un curioso irriducibile, sempre alla scoperta del mondo.
Ma non vede l’ora di imparare a leggere e scrivere bene per poter, come gli altri, tenere il suo diario! La notte scende bruscamente, senza quasi un crepuscolo, spargendo gelo per tutto il cortile.
Ci affrettiamo a cercare rifugio dentro il camper. Mentre i bambini, per riscaldarsi, si stringono quanto più possono l’uno all’altro, io rovescio sul tavolo la verdura da pulire. Finito questo lavoro, con le dita ormai intirizzite, mi unisco agli altri nella comune stretta. L’attesa della minestra, che cuoce lentamente, assorbe ogni nostro pensiero e suscita visioni di belle cucchiaiate fumanti. Sentiamo bussare alla porta: Shahwali! Ci stringiamo ancora di più sulla panchetta per ricavargli un posticino attorno alla candela che rischiara Nanobus. Lui posa sul tavolo una statuetta: “Vi ho portato un regalo”.
Così, in una sola volta, ci accorgiamo che lui è diventato più di un amico per noi e che, per forza di cose, dovremo separarci. Ecco il rovescio della medaglia di questa nostra vita da nomadi. I saluti, nel nostro caso, assomigliano tanto, strano a dirsi, agli addii. La notte è glaciale e stellata quando Shahwali se ne va. Lo guardiamo allontanarsi in silenzio e con un po’ di tristezza nel cuore.
In viaggio verso il Pakistan
9 dicembre NANOBUS va allegramente per la sua strada, felice e contento di riprendere il viaggio dopo il lungo bivaccare a Kabul.
Quanto a noi, di nuovo presi dalla frenesia dell’ignoto, dopo aver tremato di freddo lungo le gole del fiume Kabul che, con una discesa vertiginosa, ci ha fatto superare un dislivello di oltre mille metri, improvvisamente ci siamo trovati in pianura, con le orecchie tappate e grondanti sudore per via dell’abbigliamento, degno di un eschimese.
Il termometro è risalito di almeno quindici gradi, ragion per cui, fermato il camper in mezzo a un paesaggio tropicale, con estese risaie e bufali vaganti, l’intera famiglia ha proceduto alla svestizione.
Una sosta di tre giorni a Jalalabad fra i palmeti e gli aranceti, ed eccoci ora a macinare chilometri in direzione della frontiera con il Pakistan e del famoso Passo Khyber. Sorvegliato dai militari di giorno, non appena cala la notte ridiventa esclusivo appannaggio, cosi dicono concordemente tutte le guide, delle tribù guerriere e del banditismo.
Chi vi si avventurasse allora commetterebbe una pazzia. Mancano dieci chilometri al confine. Sento Marie-France innervosirsi sempre più. “E se ci beccano?” “Ma figurati! Io non mi faccio perquisire, comunque.”
Se continua a inquietarsi a questo modo finirà per mettere fifa anche a me. È preoccupata perché a Kabul ho concluso un buon affare acquistando duemila rupie pakistane. Il traffico di valuta si svolge, laggiù, praticamente alla luce del sole e l’uomo della borsa nera veniva a trovarci un giorno si e uno no, vestito come un qualsiasi onesto burocrate, con le tasche gonfie di banconote d’ogni paese. I bambini gli avevano affibbiato anche un soprannome: “Cambio Dollari”, le uniche parole che quell’uomo sembrava conoscere. Non appena saputo che ci mettevamo in viaggio verso oriente, era venuto a offrirmi quelle rupie, quasi al cinquanta per cento del loro valore! Comunque, ora forse mi converrà nasconderle.
“Calma e sangue freddo! M’è venuta un’idea. Bambini, mi fate un favore? Mi mettete a soqquadro Nanobus?“ Da dietro mi giungono, in risposta, risolini di circostanza. Bertrand, istintivamente, raccoglie i suoi due aeroplani di carta: fiuta un inganno. “Insomma, volete decidervi?
Non scherzo, ve l’assicuro. Dovete mandare tutto quanto all’aria, li dietro!“ Mi guardano tutti e quattro stupefatti. Cercano di capire, lo si vede benissimo, dove sta il trucco. Mi accorgo, anzi, che Isabelle mi osserva con un pizzico di preoccupazione: starà pensando che mi sono preso un gran colpo di sole. Non vi capisco davvero! Eppure in fatto di disordine siete abbastanza esperti! Ascoltate: ci avviciniamo alla frontiera e non voglio che a un doganiere venga in mente di mettere piede dentro Nanobus.
Mi sono spiegato, adesso?“ Stavolta hanno afferrato. Ma i primi tentativi rimangono fiacchi: Eric tira timidamente intorno a sé qualche pallottolina di carta e intanto sorveglia Marie-France, pronto a coglierne un’eventuale reazione.
Così è dovuta intervenire lei stessa, rovesciando il sacco dei calzini sul tavolo, per scatenare l’uragano. Non abbiamo mai riso così tanto. Per svuotare la sua cartella dall’alto, Eric è salito sul tavolo. Caroline ha riunito le sue cose per poi metterle in fila sul cuscino: per lei quello è il massimo del disordine. “No, no, Isabelle, il secchio della spazzatura no!
Bravi, va bene cosi.“ Con un tocco d’artista, metto in cima a tutto quel caos la buccia della banana che sto mangiando: questo si che si chiama curare il particolare. “Coraggio, si parte!“ “Dove le hai messe, le rupie?“ mi chiede sottovoce Marie-France. “Nella cartella di Bertrand, sotto quel bailamme!
Tieni la bocca chiusa, però! Preferisco che loro non sappiano nulla, così si comporteranno con maggior naturalezza.” All’inizio va tutto liscio come l’olio.
Rivedo ancora la faccia del doganiere quando, nell’invitarlo rispettosamente a procedere, gli apro il portellone posteriore… Interpreto magistralmente la scena dell’arrabbiatura contro i bambini i quali, nascosti sotto il tavolo, soffocano le risate. Prima di battere in ritirata, il brav’uomo, mosso da istinto paterno, prende le loro difese. Poi da un’occhiata al libretto internazionale e, fattosi scuro in volto, mi indica il numero di serie del motore e quello della carrozzeria: “Uguali?” Ha ragione.
Evidentemente, nel compilare i vari documenti, alla partenza da Parigi, Marie-France si è confusa. Che guaio! Perso per perso, decido di fare lo scemo. “Già, uguali.” Che coincidenza, vero? Dopo tutto, dove sta scritto che debbano per forza essere diversi? Ma il doganiere, improvvisamente sospettoso, mi indica il cofano. Con un sorrisetto da idiota, gli mostro la targhetta di identificazione della carrozzeria. “No, il numero del motore!” Le cose si mettono davvero male. Se non corrisponde a quello riportato sul documento, non può lasciarci passare. Non può escludere che ci dedichiamo al contrabbando.
“Aspetti! Non si arrabbi: ora vedo.” Con un balzo mi infilo sotto Nanobus. In quella posizione, col motore sospeso sopra il mio naso, misuro appieno le dimensioni della catastrofe: se quello trova il numero che ho davanti agli occhi, il nostro viaggio finisce qui! Importazione fraudolenta di un motore: la faccenda rischia addirittura di diventare drammatica. Da queste parti si finisce in galera anche per molto meno.
“Allora, l’ha trovato?” “No, ma sto cercando.” Meglio fingere di non trovare nulla e, visto che non sembra propenso a sporcarsi la bella divisa, forse me la caverò per insufficienza di prove. Perciò devo solo aspettare, dando a intendere che continuo le ricerche; si stuferà prima di me. “Io torno in ufficio. Mi avverta, quando avrà trovato.” Seduto nell’ufficio doganale, attendo da quasi due ore. Devo pazientare, evitare a ogni costo di inimicarmi il funzionario. L’ultimo di una lunga fila di persone in attesa di varcare la frontiera gli apre davanti un’enorme valigia gonfia di indumenti nuovi. Il mio buon doganiere fruga, pesca dal mucchio due camicie, belle, le sventola sotto il naso del proprietario… e le infila lesto lesto in un cassetto della sua scrivania.
Tasse doganali “personalizzate”! Ma allora, forse si può trovare un accomodamento! Il doganiere si gira dalla mia parte. “Sa, la faccenda è grave” dice. Tentando il tutto per tutto, gli tendo furtivamente la bustarella già predisposta. “Per i suoi figli.” Attimi d’angoscia: l’offerta può aggravare la mia posizione. Il brav’uomo sbircia con discrezione all’interno dell’involucro valutandone il contenuto e subito dopo le mie rupie spariscono nella tasca della sua giubba! Sembra riflettere. “Va bene! Adesso però mi accompagna a casa” dice puntando il dito verso i monti. Tutto sistemato! In fin dei conti me la cavo a buon mercato.
Quando, con lui, giungo davanti a Nanobus, la notte Sta calando. Annuncio a Marie-France: “Dobbiamo accompagnarlo al suo paese”. “Ma sei matto?” Ha uno scatto di nervi. “Non vorrai affrontare il Khyber a quest’ora?” “Non urlare! Sei stata tu, si o no, a pasticciare con i numeri?” Metto in moto in un silenzio carico di tensione. I primi tornanti. Un camion ci viene incontro. Da dietro mi urlano: “A sinistra, papà. A sinistra! A SINISTRA!” Oddiol… C’è mancato un pelo! Fermo il camper e chino la testa sul volante per riprendermi dall’emozione. È vero, chi se lo ricordava più: da ora in poi bisogna guidare a sinistra.
Il Pakistan, infatti, aveva fatto parte dell’impero britannico e ne aveva ereditato le tradizioni. Che rompiscatole, questi inglesi! Il nostro buon doganiere è sembrato ben lieto di lasciarci, ma mai quanto noi. Però adesso, per colpa sua, ci troviamo a dover girare a notte fonda per stradine losche lungo le quali si aggirano brutti ceffi baffuti e armati fino ai denti. Dicono che da queste parti hanno il grilletto facile.
La stessa Marie-France si guarda bene dal chiedermi di fermarci per dormire. Ho paura. Una fifa malvagia, perfida, che nasce dal fondo dello stomaco e che mi risale fino in gola. Ma devo tenerla per me: ci mancherebbe altro, sono il papà, io, il marito… insomma, l’eroe. Però ho fifa. Marie-France, invece, può esprimersi, e ne approfitta: “Christian, ho paura. Guarda questi altri qui, quei tipi armati entrati ora nel cono di luce dei nostri fari…
Chi saranno?” “Chi vuoi che siano? Gente che passa! Non stare a preoccuparti!” Vorrei tanto aggiungere: “Perché ti meravigli? A tutti, anche ai banditi, ogni tanto viene voglia d’una passeggiata…” “Guardate, piuttosto, queste gole straordinarie e quant’e bello il profilo dei monti che si staglia nel chiarore lunare!” “Lo sapevi, papà, che proprio in quei posti lassù migliaia di inglesi vennero massacrati?” “Ah, ma bravo! Complimenti!
Ma insomma, Bertrand, non sai trovare nient’altro da dirci?” “Perché, che c’é di male?
Tanto, noi mica siamo inglesi!” Dopo un secolo finalmente arriviamo alla frontiera con l’India. I capelli mi saranno diventati tutti bianchi. Quelli che mi rimangono, intendo.
Abbiamo svegliato il militare di guardia al valico, un tizio grande e grosso, barbuto e che porta in testa un turbante a punta. L’ultimo timbro viene apposto sull’ultimo documento e l’omone se ne va alla barriera per alzarla con un’espressione ancora attonita in viso. Amritsar, quaranta chilometri!
Marie-France
Amritsar India, 13 dicembre QUANTE VOLTE, e con quale intensità, l’avevamo sognata, e ora eccoci qua… Mi sento un nodo alla gola. Così, finalmente, sono arrivata in India, con Christian e i bambini. Dovevo ripetermelo in continuazione. Anche Christian era emozionato, l’ho sentito subito.
Tanti chilometri e tanti pericoli, ma adesso siamo arrivati. A lungo siamo rimasti senza parlare, segretamente timorosi di dover mettere a confronto quest’India, così vicina, a quella che ciascuno di noi portava dentro di sé. “Io me l’immaginavo tutta piena di giungla, con le tigri e gli elefanti” ha mormorato Bertrand.
“E anche con tantissimi fachiri stesi sui chiodi” ha aggiunto Eric. Coi nasi incollati ai vetri di Nanobus siamo andati avanti, senza fretta, rapiti dalle prime immagini che man mano la strada svelava ai nostri sguardi: grossi carri trainati da bufali sonnacchiosi; ciclisti dalle camicie svolazzanti e dai turbanti rosa, o rossi o arancione; un bambino che tirava per la coda uno zebù dalle corna dipinte a colori vivaci; una lunga teoria di donne che, con molta grazia, trasportavano sul capo mucchi di panni multicolori; un uomo dalle esili gambe e scalzo che, piegato sulla bici, trainava un risciò occupato da tre barbuti pigramente abbandonati sul sedile; una motoretta, splendente, cavalcata da un’intera famiglia di cinque persone abbarbicate a grappolo…
La dolcezza pareva costituire la nota dominante di quella popolazione. Mi sono sentita subito felice. Inghiottiti da una folla brulicante, ci troviamo nel bel mezzo di una baraonda di colori e di odori, schiamazzi e scampanellate. Portati da quella fiumana di gente, e superati inestricabili ingorghi, capitiamo, alquanto frastornati, su di un ampio piazzale inondato dai raggi del sole. Sullo sfondo si ergono le arcate di un immenso portale rosa, dominato da una cupola bianca. “Sarà certamente l’ingresso del famoso tempio dei Sikh!”
“Dovete assolutamente visitarlo” ci aveva raccomandato la nostra amica, Tata Martha. Non appena parcheggiamo, Nanobus viene circondato e assalito da un nugolo di ragazzini che incollano gli occhi ai vetri.
La luce del sole, fuori, è accecante. Siamo a metà dicembre ed è piena estate! Quando usciamo, ci accorgiamo che nel frattempo il pubblico e andato infittendosi.
Scambiamo sorrisi con tutti. “Ehi, dico a voi, piccolini: ma vi sembra il modo?” Eric e Isabelle stanno fissando, immobili, e a bocca spalancata, due allampanati vegliardi la cui lunga barba bianca scende fino a lambire la cintola.
Vestono una tunica da pastore medioevale e impugnano, ciascuno, una lancia da alabardiere. Caroline mi sussurra all’orecchio: “Pensare che tutti guardano noi! Si vede che abbiamo un aspetto davvero straordinario!” Sempre accompagnati dalla nostra scorta, giungiamo davanti al grande portale del Tempio d’Oro.
Possiamo visitarlo, ma dobbiamo coprirci il capo, toglierci le scarpe e lavarci i piedi in quella piccola vasca quadrata. Eric e Isabelle già vi zampettano, felicissimi.
“Ma Eric, non con i calzini!” Fin dall’ingresso, quello che si apre davanti ai nostri occhi è uno spettacolo favoloso: sulle acque quiete di un ampio bacino si riflettono, mandando mille bagliori, i colori sgargianti dei vestiti e l’oro del tempio.
I bambini rimangono sbalorditi. Accanto a me un uomo, che indossa una camicia rosa e un turbante scarlatto e che alla cintola porta un pugnale, si inginocchia a baciare una lastra di marmo. Seguiamo la folla in preghiera verso un elegante ponticello di marmo bianco che scavalca il bacino e conduce al tempio.
Guardo furtivamente i pellegrini: non vorrei passare per una curiosa insolente. Eric però non condivide i miei scrupoli e cammina col naso all’insù, affascinato, e ora va a sbattere, testa in avanti, contro un capannello di donne velate di rosso. All’intemo del tempio, in uno scenario fiabesco di marmi bianchi incastonati di pietre preziose, una splendida figura d’uomo, un anziano, sta salmodiando i versetti che legge da un libro enorme.
Un assistente, non meno ieratico, gli fa aria agitando, con gesti lenti e solenni, un ventaglio bianco dal lungo manico. Sgusciando tra la folla, andiamo a sederci in un angolino, in mezzo ai fedeli. L’odore dell’incenso, la suggestione della musica… Mi sorprendo a pregare assieme a chi mi sta accanto.
Quando usciamo, il sole sta già tramontando. Un vecchio dallo sguardo dolcissimo ci invita, a cenni, a tendere la mano appena. Vi posa un pezzetto di qualcosa: sembra un dolcetto di semola. Mi guardo intorno: i pellegrini mangiano, rispettosamente. Lo assaggio e lo trovo dolciastro, un po’ troppo zuccherato per i miei gusti.
Ma ci osservano. “Bambini, mangiatelo e vi accorgerete che non é poi cosi cattivo.” Giunti all’estremità del ponticello, ci sentiamo chiamare da una voce.
Mi volto: una donna giovane che indossa una tunica sopra un paio di calzoni a sbuffo e con i capelli raccolti in una lunga treccia nera e inginocchiata su una lastra di marmo. Prende uno di quei dolcetti di semola e, rivolgendosi a Eric, gli dice con gentilezza: “Prasad!
Cibo benedetto: se a voi non piace, voi lo buttate dentro acqua benedetta”. Il nostro Pollicino diventa rosso come un papavero, prende quest’altro pezzetto di cibo sacro e lo manda giù con un sorriso un tantino forzato. “Buono? Voi piace?” a Si, é buono” balbetta lui.
Lei allora, intenerita, lo costringe ad accettare un altro dolcetto. Mentre la donna, sorridendo, si allontana, Christian e gli altri si strozzano dalle risate. In strada ci attende di nuovo quel brulicare di vita nel quale torniamo a immergerci. Ma dobbiamo pur trovare un posto dove sistemarci! “Basta, adesso!
Fermiamoci! Mancano pochi minuti alle undici e lo vedi anche tu che i due più piccoli non ce la fanno più!”
E neppure io, del resto. Da due ore andiamo girando senza meta e saranno almeno tre volte che rivedo questo passaggio a livello. Però quando Christian si mette in testa una cosa!… Tutto perché un giovane sikh gli ha indicato una locanda, sulla strada per Simla, dove si mangia bene spendendo poco. Pensare che un piatto di minestra lo rimedierei facilmente, a bordo di Nanobus; stasera, però, il signore non si accontenta: “Quell’intruglio? Ma se ce lo presenti mattina e sera da tre giorni! Ha stufato, ormai. Io mangerei volentieri un bel curry!” “Anche noi, anche noi!” esulta Bertrand.
VENGO svegliata dall’improvviso silenzio: Christian ha appena spento il motore. Ci troviamo in un posto buio, deserto e poco rassicurante. “Vuoi fermarti proprio qui?” gli domando. Lui mi indica una luce in fondo a un viale alberato. “Andiamo a vedere, forse e laggiù.” Mentre i bambini scendono a terra quasi barcollando, io chiudo accuratamente le porte: non mi piace dover abbandonare incustodito Nanobus in questi paraggi.
Ci avviamo, ma più andiamo avanti e più lo scenario ci lascia perplessi: laggiù in fondo, stretta fra alte mura che si stagliano contro il cielo, una lanterna rossa illumina fiocamente una porta monumentale conferendole un aspetto sempre più irreale. Ai lati di quella – solo adesso riusciamo a distinguerli – stanno due piantoni, impettiti nella divisa bianca completata da un impeccabile turbante. Christian già si rivolge a uno di loro e quelli, per tutta risposta, premono, inarcandosi per lo sforzo, contro la massiccia porta che ruota lentamente sui cardini e c’invitano a passare attraverso il varco.
Entriamo così in un giardino, deserto ma fiabesco, illuminato dalla luna i cui raggi vengono riflessi, con mille bagliori, da una vasca… ma quello che più colpisce, è il profumo: straordinario, indefinibile, conturbante. Un rumore mi fa sobbalzare: l’enorme porta s’e richiusa improvvisamente alle nostre spalle. “Prigionieri!” sussurra Christian, che si diverte a spaventarci.
I due più piccoli si stringono a me, e confesso che neppure io mi sento molto tranquilla.
“Ascolta, credo che convenga tornare a bordo di Nanobus. Questa di sicuro non è la locanda che dici tu.” “Andiamo comunque un po’ più avanti, tanto per curiosità. Scendiamo in punta di piedi per un’ampia scalinata di marmo che costeggia la vasca. Solo il frusciar dell’acqua rompe il silenzio. Giungiamo in fondo. “Papa! Guarda!” Per la sorpresa, Bertrand ha quasi urlato: oltre un portico delizioso si apre un secondo giardino con un’altra vasca in cui scendono, pigramente, le acque della prima. Adesso Bertrand si mette a correre addirittura. Allo sbigottimento subentra l’incredulita: davanti a noi, infatti, si stende per piani digradanti una teoria infinita di vasche fatate e di giardini misteriosi. Fingendosi angustiato,
Christian si gira dalla nostra parte: “Siamo caduti prigionieri” ci dice a bassa voce, “di un maharaja che vuole ripopolare il suo harem; i profumi servono a intontirci”.
“Sciocco!” Effettivamente, sembra proprio la dimora di un maharaja. Ma perché ci hanno lasciati entrare? mi domando. “Ascoltatemi, ci troviamo senz’altro in una proprietà privata. Torniamo a bordo di Nanobus.
I custodi devono averci confuso con qualcun altro.” Caroline ha scorto una luce: laggiù in fondo, le finestre di uno stupendo padiglione bianco sono illuminate. Christian e i due maggiori si avviano subito in quella direzione, guardinghi come ladri. E una sala da pranzo, grande e strana. Vuota, a eccezione di alcuni avventori, tutti uomini col turbante, che discutono a bassa voce. Al nostro arrivo, tre splendidi servitori si producono in un inchino profondo congiungendo le mani all’altezza del petto; senza pronunciare una parola ci indicano un tavolo apparecchiato con vasellame fine e bicchieri di cristallo. Isabelle mi spinge col gomito: “Li vedi quelli?
Parlano tra di loro e intanto ci osservano”. “Forse ci hanno messo il veleno nel bicchiere” sussurra Christian con fare da congiurato. Caroline si china verso di lui per suggerirgli: “Oppure nelle vivande. Bisogna tirare a sorte per stabilire chi di noi assaggia per primo il cibo”. “Finitela con questi scherzi macabri” li ammonisco, in preda a una lieve inquietudine. “Le vostre scemenze non fanno ridere.”
Ci hanno serviti portandoci il menù e, poi, un curry da leccarsi i baffi che ci ha lasciato il fuoco in bocca, e, per finire, naturalmente un conto salato; tuttavia, giunto il momento, siamo risaliti verso l’uscita a passo svelto… Avevo fretta di ritrovare Nanobus. Christian e i bambini l’hanno preso d’assalto cacciando urla lugubri.
“Perché non ci fermiamo qui per dormire?” ha proposto Christian. “Be’… ecco… c’e pocaluce.”
“E poi forse manca l’acqua per lavarsi” ha aggiunto Eric, sornione. Ci siamo fatti una bella risata, dopo di che, a ogni buon conto, siamo andati a dormire da un’altra parte.
Christian
In viaggio verso Delhi, 14 dicembre NANOBUS AVANZA zigzagando in mezzo a una marea di veicoli, parecchi a pedali, molti a trazione animale (asini, zebù, bufali) e altri a motore. “Fermati, vedo un mercatino” dice mia moglie. Dietro la folla, vestita coi sari e i caratteiristici pigiami, che va girando a piedi, in bicicletta o sui ciclo-risciò a malapena si scorgono i venditori accovacciati in terra davanti alla verdura ammucchiata. Toh, le papaie! Così finalmente mangiamo qualcosa di diverso.” Marie-France punta un dito verso un mucchietto di quei frutti e da inizio a una discussione muta, a gesti. I bambini, da dietro, mi tirano un braccio: “Glielo diciamo, oppure no?” Alle spalle di mia moglie, una vacca scheletrita sta tranquillamente brucando il tenero ciuffo di un porro che sporge dalla sua retina per la spesa.
Marie-France si volta di scatto, tira a sé la retina e alza una mano minacciosa: “Eh, no! Bestiaccia, va’ via! Vattene”. Qualche passante si gira. Si sente nell’aria odore di sacrilegio… Prendo Marie-France da una parte, rivolgo un sorriso deferente al mammifero e gli offro quel che rimane del porro. “Ma come, non ti ricordi! Non è la tua offerta agli dei?” La sacra bestia si sposta per andare a brucare altrove ma… ce la vediamo ripassare davanti a razzo, inseguita da una vegliarda sdentata che le assesta gran colpi di sgabello sull’ossuto quarto posteriore. “Se l’avessi saputo!” commenta Marie-France.
Quindici minuti dopo torniamo in cambio di poche rupie. I bambini ci seguono a fatica, gravati dal peso del casco di banane che Eric si e comprato con i suoi risparmi. Saranno almeno una sessantina! “Christian! Nanobus!” esclama a un tratto Marie-France. Sulla piazzetta dove l’ho lasciato venti minuti prima, lo vediamo spuntare appena da dietro un mare ondeggiante di turbanti. Momenti di panico. Mi precipito e mi rendo conto che ce l’hanno proprio con lui: l’hanno circondato.
Un babbeo grande e grosso, che si è cinto i fianchi con un lenzuolo e ne porta un altro annodato sulla testa, viene verso di noi. Con un gesto circolare del braccio indica la folla ammirata. “Nessuno di noi ha mai visto un veicolo come questo” dice in inglese. “Si potrebbe visitarlo?”
Sia pure formulata nel più urbano dei modi, la richiesta mi lascia non poco perplesso, data la consistenza del pubblico: anche se li prendessi a bordo a gruppi di cinque, le visite a Nanobus si protrarrebbero per almeno una settimana. Ripiego allora su una conferenza-stampa. Con grande liberalità apro il portellone posteriore e mi isso sul predellino: “Ladies and gentlemen…” comincio. L’amico di prima si piazza al mio fianco per svolgere la funzione di interprete. La traduzione viene accolta e sottolineata da mormorii e da un agitarsi ammirato di turbanti.
Un successone. Ma il meglio viene adesso: sollevo lentamente il coperchio del lavello, premo il bottoncino rosso e dal rubinetto scende uno stentato filino d’acqua. “L’acquacorrente!” L’annuncio del prodigio viene diffuso di bocca in bocca dalle prime file fino alle ultime. Ma Bertrand protesta: “Acqua corrente…
Però non lo dici che ogni mattina mi tocca scarpinare per riempire quel tuo serbatoio!” “Adesso, però, bambini, salite a bordo.
Vedo arrivare altri: conviene filarcela prima di dover dare un secondo spettacolo.” Nanobus s’inoltra in mezzo alla folla che rispettosamente si apre davanti a lui. Un ometto macilento si alza sulla punta dei piedi: “Da dove venite?” “Francia.” “Francia…” ripetonono gli astanti, perplessi.
Non capiscono bene, a quanto sembra, ma no non mi sogno certo di spiegare a questa gente che la Francia si trova a un tiro di schioppo dall’Inghilterra: la cosa potrebbe venir giudicata, da queste parti, tutt’altro che un titolo di merito…
Caroline
Delhi 15 dicembre IERI, NANOBUS ha impiegato più di sette ore per coprire duecento chilometri. Papà, poveretto, suonava il clacson a più non posso, ma senza risultato. Le strade sono ingombre di carri trainati da bufali, di vacche, di migliaia di persone che si spostano a piedi o in bicicletta. Tutti quanti, poi, occupano il centro della via e oltretutto molti camminano come addormentati.
Verso mezzogiorno ci fermiamo all’ombra di un albero per mangiare. Ma, proprio dietro l’albero, stava a marcire la carcassa di un bufalo e, dentro quella, era all’opera una banda di disgustosi avvoltoi che, razzolando, cacciavano urla tremende. Tutt’intorno ronzavano nugoli di mosconi, grossi e blu, e poi quell’odore… Ce ne siamo andati via di corsa e per un bel pezzo nessuno ha avuto più voglia di mangiare.
Così, l’arrivo a Delhi è avvenuto sul tardi, e meno male che abbiamo trovato un campeggio. Ci sono tantissimi hippy e non fanno altro che ascoltare musica indiana. Dovremo rimanere qui diversi giorni perché abbiamo finito i soldi e, per fare la spesa, dobbiamo aspettare che la banca di Meudon ce ne mandi degli altri.
Dopo di che, riprenderemo il viaggio attraverso l’India.
Nelle strade intorno al campeggio la gente dorme per terra, all’aperto. Vengono in tanti, si sistemano l’uno accanto all’altro allineati lungo il marciapiede, e per proteggersi dal freddo della notte dispongono solo di una specie di lenzuolo sporco, nel quale si avvolgono. Proprio vicino all’ingresso del camping una mamma davvero molto giovane, di nome Kamali, sta seduta per terra appoggiata a un albero con i suoi due figlioletti.
L’ho vista nutrirli con qualche briciola che teneva nel palmo della mano.
Ha la gamba sinistra fasciata con degli stracci e perciò non può camminare. Tuttavia, sorride sempre e neppure accenna a chiedere l’elemosina. Proviamo molta tristezza per lei e non sappiamo come comportarci. Ne abbiamo parlato a lungo, tra di noi. Visto che dev’essere poco più grande di me, andrò io stessa a portarle ogni sera un sacchettino preparato da mamma e papà. Ma solo quando è già buio, perché non abbia a vergognarsi.
22 dicembre STAMANI, come ogni giorno da una settimana, abbiamo passato la mattinata in banca. Che noia, però, stare ad aspettare! Anche stamani non c’era nulla.
Papà è nero dalla rabbia: sa per certo che qualcosa hanno ricevuto perché cosi ci ha informati il nostro istituto di credito con un telegramma. Sulla Strada del ritorno, papà ci ha chiesto se gli prestavamo i nostri risparmi; abbiamo fatto i conti e ci rimangono esattamente cinque franchi e cinquanta centesimi. Da diversi giorni, ormai, mangiamo solo pane, non disponendo di altro.
Stavolta mamma e papà hanno deciso di andare a chiedere un piccolo aiuto all’Ambasciata francese.
23 dicembre Questo pomeriggio siamo andati tutti e sei all’ambasciata, che si trova dalla parte opposta di Delhi, in un quartiere elegante, dove ci sono prati viali spaziosi e ben curati nonché belle ville all’inglese. Isabelle cominciava a sentirsi stanca. “Visto che tra poco avremo il denaro, possiamo anche permetterci di prendere un moto-tassi” ha proposto papà.
È una grossa motocicletta con un carretto attaccato alla_parte posteriore e sormontato da un tettuccio di tela sfrangiata, come i furgoncini dei gelati. Così, fermiamo un tassista: ci appare altero come un maharaja, con un bel turbante viola, i baffi grigi e la barba imponente. Ci porta in giro destreggiandosi abilmente in mezzo al traffico e lasciandosi dietro una scia di sonori scoppiettii. Noi eravamo assordati e scapigliati al massimo, ma quanto ci divertivamo a circolare cosi, all’aria aperta.
Arriviamo, ed ecco la bruttissima sorpresa: l’ambasciata aveva appena chiuso e non avrebbe riaperto fino al 27 per via delle feste natalizie. Abbiamo fatto certe facce!
Per tornare a piedi fino al campeggio Ci abbiamo messo quasi un’ora e mezzo. Ci seguivano mendicanti-bambini e lebbrosi, ma noi non avevamo più nulla da offrire.
24 dicembre SIAMO andati a fare la spesa in un mercatino poverissimo, dove i venditori mettevano in mostra pochi ortaggi, sistemati alla meno peggio per terra, in mezzo alla polvere.
Mamma e papà erano molto seccati di dover tirare sui prezzi, ma non potevamo sprecare le ultmie rupie rimaste. Siamo tornati portando il pane e un sacchetto di lady’s fingers, una specie di legumi a forma di grande fagiolo che mamma vedrà di cucinare per il pranzo di Natale.
25 dicembre NATALE! Che strano… Non mi sembra neppure vero. A quest’ora, a Parigi, tutti i cugini stanno festeggiando sotto l’albero a casa dl Nonnina, e forse non manca neppure la neve.
Qui, invece, all’ombra di quest’albero, fa caldo come d’estate. Ieri sera, per il cenone della vigilia, ci siamo stretti intorno a una candela; la mamma ci ha preparato un pentolino di cioccolato caldo con il latte in polvere e il cacao comprati a Kabul, tenuti accuratamente nascosti perché arrivassero fino a Natale.
Con Isabelle, ho chiesto il permesso di portarne un po’ a Kamali e ai suoi bambini, con qualche fetta di pane. Papà è venuto con noi. Kamali sedeva al solito posto, addossata all’albero, e non dormiva.
Ci ha invitati ad accomodarci accanto a lei, ma a me non andava molto per via del sudiciume sparso sul marciapiede. Ci siamo fermati a lungo, e papà e Isabelle hanno giocato con i bambini, belli con quegli occhioni neri, ma tanto magri e coperti di croste.
Kamali rideva in continuazione. Io ero contenta di trovarmi li, però mi vergognavo di provare disgusto per la sporcizia. Mi vergognavo di possedere tante cose, e alla fine mi sono lasciata prendere dal magone.
Isabelle
Mamma mi fa le trecce per la messa di Natale. Abbiamo indossato i vestiti belli.
Ci avviciniamo e, davanti alla chiesa, vediamo una frotta di venditori di palloncini colorati. Che buffo!…
I palloncini a Natale! Entriamo e andiamo a vedere il presepio. A Gesù e ai suoi Genitori hanno messo variopinte ghirlande di fiori intorno al collo, ma più di tutti ne ha la vacca, che per gli indiani, come tutti sanno, è sacra. All’asino, invece, niente! Cantano inni che nessuno capisce.
Allora io faccio la comunione recitando una preghiera a bassa voce. Peccato che i negozi non sono addobbati.
Ma, per loro, Gesù è Krishna, che é nato in un giomo diverso.
Bertrand
Siamo tornati quasi di corsa al campeggio dove, per il pranzo di Natale, ci aspettavano quei nuovi legumi. Però, quando mamma ha portato il piatto in tavola e li abbiamo assaggiati, ci siamo accorti che erano appiccicosi. Sembravano colla, come il bianco dell’uovo poco cotto.
Mamma c’e rimasta male, soprattutto perché papa la prendeva in giro e passava il cucchiaio sul tavolo lasciandovi come una bava di lumaca. Allora c’e tornata in mente la nostra simpatica Tata Martha e s’e parlato, ma solo per ridere, di quel ben di Dio che avremmo mangiato se fossimo rimasti a Kabul.
Christian
Delhi, Ambasciata francese, 27 dicembre “QUINDI, A SENTIR quelli della banca” dichiaro, “non avrebbero ancora ricevuto nulla per me.” Bell’uomo, sulla quarantina, distinto e molto curato nel vestire, il console sembra uscito da un giornale di moda. “Bene, me ne occuperò personalmente”assicura. “Non appena sua suocera si sarà recata al Ministero e io avrò ricevuto il telex di conferma, lei disporrà del suo denaro.
Ripassi alla fine della settimana.” La fine della settimana!… Che Capodanno allegro! Dando prova di eroismo, i bambini non battono ciglio. si che stasera volevamo cenare.
Io però devo aver fatto una faccia lunga, da quaresima. “Quanto vi rimane, esattamente?” domanda allora il console. “Venticinque centesimi” confessa Marie-France.
“Capisco!” Capisce! I cuori – e lo stomaco – si riaprono alla speranza. “Allora vi occorre un aiuto immediato. Utilizzerò il mio fondo-cassa personale. Un attimo, torno subito.”
Marie-France si china verso dime: “Pensi che possiamo anche confidargli i nostri problemi di carta?” “Ma dai, figurati!” la rimbrotto. “Non dimenticare che stiamo parlando con un console.” “E con questo? Se ne servirà anche lui, no?” “Zitta, eccolo che torna.” “Dunque, posso prestarvi questo.”
Mi tende una mazzetta di rupie. “Prego, firmi qui. Non per sfiducia, ci mancherebbe, ma per regolarità contabile.” “La ringrazio infinitamente.” “E a parte questo contrattempo, vi trovate bene in questa citta?” “Benissimo” dice Marie-France. “Però vorrei chiederle un consiglio a proposito di un altro piccolo problema: saprebbe, lei, dove potremmo trovare la… come dire?… la carta igienica?” “Ma insomma, Marie-France, cosa vai dicendo?
Ti sembra che…” “No, no, guardi, ha fatto bene a parlarmene” m’interrompe il console. “Nessuno, qui, si serve di tale prodotto e noi europei spesso ci troviamo in difficoltà.
Consentitemi una telefonata.”
Marie-France mi da una gomitata. “Ecco, hai visto?” mi bisbiglia all’orecchio, trionfante. Il console ripone la cornetta sulla forcella. “A posto. Un mio amico può rimediare sei dozzine di rotoli.
Fra un attimo arriva un fattorino.”
Mezz’ora dopo usciamo dall’ambasciata, felici e contenti, con un fascio di rupie in tasca, con settantadue rotoli sottobraccio e con una nuova amicizia. Il console, venuto a sapere del nostro coro, subito ha afferrato la palla al balzo: “Ma bisogna assolutamente organizzare un recital, qui a Delhi! Stasera stessa ne parlo con il funzionario che si occupa degli spettacoli”. Intanto però ricostituiamo le scorte, come per un assedio. Riso, soprattutto: riempie bene la pancia. Divoriamo metà del pane prima ancora di giungere alla cassa del negozio. “Ora carichiamo tutto su Nanobus, e poi via di corsa al ristorante.”
È gia buio quando usciamo di nuovo dal campeggio e ci inoltriamo per una stradina a sinistra. Di li, ci hanno detto, si va al ristorante. “Attento, inciampi su qualcuno.” Tutt’intorno a noi, in file compatte, la gente si prepara per la notte in strada. Famiglie intere, con gli anziani e i bambini. Piccole lampade a petrolio mettono in luce scene strazianti. Questi disgraziati stanno a dividersi le briciole e noi si va al ristorante! I bambini, questi bambini miserabili, ci osservano con i loro occhioni, senza un gesto, senza tendere la mano, senza chiedere l’elemosina. Io mi sento ricco e grasso. “Christian, io torno indietro” mi dice Marie-France.
Come un sol uomo, tutta la famiglia ha fatto dietrofront. E tornando sui nostri passi, ci siamo sentiti sollevati.
1° gennaio 1978 “Buon Anno!” L’equipaggio di Nanobus si bacia e si abbraccia. Fuori ci sono ventisei gradi. Prima colazione sotto il sole, fra gli scoiattoli e gli uccellini. Bertrand, oggi caporale di giornata, ha assegnato le corvé. A me toccano i piatti e la spazzatura. Un tizio, con la barba lunga e il viso sfatto, viene a piazzarsi di fronte a me e mi guarda sbalordito. “Come, voi qui?
Sono José! La expediciòn spagnola! Ricordate?” Ah gia! Ora ricordo… Istanbul! Il camion attrezzatissimo con i dodici superfusti che ridevano tanto di Nanobus. “Arrivate adesso? Come é andata?” “Terribile!” “Davvero? E come mai?” “Un camion in avaria. L’altro, assalito in Turchia. Abbiamo perso parte del materiale e i documenti: per rimetterli insieme c’e voluto un mese.
A quel punto, è venuta giù la neve e in quelle condizioni la montagna diventa impresa fra le più ardue. Tre dei nostri, che già stavano poco bene, sono rientrati in Spagna. A Teheran, poi, abbiamo subito il furto di una moto. Ma il peggio doveva venire in Afghanistan: li hanno rinunciato tutti gli altri. Siamo rimasti in due: Antonio e io.” “Di dodici che eravate! E intendete proseguire, voi due?”
“Antonio si è ammalato. Ha perso quindici chili. Parte in aereo, domani.” Mi guarda, stupito. “E voi?” “Nulla di particolare! Ci troviamo qui da quasi tre settimane. José guarda sbalordito Nanobus e domanda, incredulo “E questo coso ha funzionato?” “Questo coso non ci ha dato alcun fastidio!”
Isabelle
9 gennaio 1978 Indossiamo i costumi per andare in scena e, siccome non vogliamo sporcarci, prendiamo Nanobus. Aspettiamo nascosti dietro il sipario; quando sento entrare la gente, spio da una fessura. Vedo arrivare un sacco di indiani tutti agghindati con vestiti multicolori, ma soprattutto vedo una grande folla di turbanti. Forse non capiranno tutte le nostre canzoni, perché noi cantiamo in varie lingue. Un signore alza il sipario, tutti applaudono e allora, logicamente, ci sentiamo un tantino intimiditi.
Cantiamo in jugoslavo, in russo, in romeno. A ciascuno la sua voce: il soprano lo fa Bertrand. Io suono lo xilofono e, quando intoniamo il finale, devo solo aprire la bocca perché non vogliono che canti veramente, anche se lo so fare benissimo. È finita.
Gli indiani sono molto contenti e vengono a parlarci; i giornalisti, invece, inseguono papà stringendo in mano blocchettini per appunti. Dopo, andiamo al ristorante; è stata un’idea di papà, per premiarci. A mamma sta bene, purché non si spenda tanto. Finiamo per trovame uno che costa due rupie, ma cosa ci portano? Riso freddo, in una brodaglia d’acqua neppure molto pulita, e con una salsa cosi piccante, che diventiamo rossi rossi, rimaniamo a bocca aperta con la lingua penzoloni e ci vengono giù i lacrimoni. Dopo, andiamo a riprendere Nanobus. E allora che ci capita un guaio grosso.
Bertrand era andato avanti per aprire, ma improvvisamente grida che sul sedile sono caduti dei pezzi di vetro. To’ che strano! Arriviamo tutti quanti e io vedo un finestrino rotto e la porta aperta. Mamma si affaccia all’interno e urla: “Lo sapevo! Lo sapevo! Ci hanno derubati!” Papà si precipita a vedere cosa ci hanno sgraffignato. Ah, che maledetti! Il registratore, con tutti i ricordi di viaggio, e il borsone di mamma dove tenevamo le partiture. Ci arrabbiamo tutti, ma tanto non serve. Papà va alla polizia a denunciare il furto perché poi alla dogana potrebbero accusarci di contrabbando.
Che nervoso ci è venuto! Il giorno dopo, tutti i giornali indiani parlano di noi! Sono scritti in inglese e quando li leggiamo ci viene da ridere perché ci fanno dire anche cose che non abbiamo mai detto. Quante arie si è dato, poi, il responsabile del campeggio! Papà ha portato Nanobus a riparare: mettono un vetro nuovo e i lucchetti. Caroline lava i piatti e i maschi fanno il bucato pestando i panni con i piedi nel catino. Ma quanta schiuma viene su! Domani “bellissimo!” si va nella giungla. Nella giungla, ai piedi dell’Himalaya.
10 gennaio 1978 Cara Nonnina, tu non mi crederai, eppure eccoci qua in una giungla, una giungla vera dove abbiamo pure visto una tigre, e da vicinissimo. Era enorme e ha ruggito con una smorfia ferocissima che ci ha spaventati molto. Ora ti racconto come è andata. Anzitutto ci hanno messo a disposizione un elefante che sulla groppa portava una specie di lettino rovesciato. Il cornac, che è il conducente degli elefanti, gli ha ordinato di accovacciarsi, poi ci ha aiutati a salire e infine si è seduto fra le orecchie del bestione che si è addentrato nella giungla. Con le orecchie sventolanti ci mandava sbuffi d’aria, che ci facevano piacere, dato il gran caldo.
Correva come un treno aprendosi un varco nella fitta vegetazione e dopo qualche tempo abbiamo cominciato a vedere gli unimali tutt’intorno a noi. Elefanti allo stato brado, cervi, alcuni cerbiatti e porcospini.
Dopo, siamo entrati in uno stagno. L’elefante vi si è immerso sempre più e con la proboscide si spruzzava addosso un mare d’acqua. ll cornac diceva che c’erano anche dei coccodrilli, tantissimi, e infatti li abbiamo visti, ma soltanto in un lampo, di sfuggita. Però non ne siamo sicuri al cento per cento.
A un tratto arriviamo davanti a una… Indovina cosa, Nonnina?… una tigre, ma enorme/ L’elefante ha cacciato un barrito fortissimo, spaventoso, con la proboscide. Tremava a più non posso. Noi non osavamo muovere neppure un dito. La tigre si è avvicinata, pareva affamata e, siccome mi guardava, ho temuto che volesse mangiarci. Ma poi è andata via, di pessimo umore. Una fifa che non ti dico! Subito dopo, mi scappava la pipì, da non resistere. Eppure, c’ero andata poco prima. Mamma si è seccata perché bisognava scendere a terra, nella giungla. Anch’io avevo paura, perché chi ci assicurava che la tigre non era rimasta in agguato da qualche parte? Abbiarno avvertito il cornac e papà è sceso con me.
Siamo rimasti vicini all’elefante, e mi sono sbrigata come un fulmine così siamo risaliti subito. Peccato che papà aveva già messo via la macchina fotografica, altrimenti vedevi la tigre in fotografia. Rimaniamo alcuni giorni nella giungla, però dobbiamo ancora trovare il posto adatto.
Cara Nonnina, ti abbraccio forte forte, Isabelle.
Tratto dal libro “In camper a Katmandu” appunti di viaggio dei Des Pallieres Edito da Selezione dal Reader’s Digest, condensato da “Quatre enfants et un rêve” éditions Albin Michel Paris.
Segue la 4° parte: (Con Nanobus a Katmandu 1977)
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