(4° parte di: Con Nanobus a Katmandu 1977)
E se andassimo in capo al mondo?
Chi non ha mai detto questa frase, in famiglia
o agli amici, almeno una volta nella vita?
E decidemmo di partire in camper, per l’India .
di Christian e Marie-France Des Palliéres
Marie France giungla 10 gennaio Un vecchio dalla pelle incartapecorita e con le gambe arcuate ci accompagna in cima a una collina coperta di alberi immensi.
Da quel posto, davvero splendido, si domina una vasta radura che si apre nella giungla. “Ecco, se vi piazzate qui” ci dice il vecchio, “potrete osservare gli animali: vengono in tanti, verso sera, ad abbeverarsi a quel lago che vedete laggiù in fondo.”
Scendo a terra per aiutare Christian a trovare un tratto di terreno pianeggiante dove parcheggiare Nanobus; la ricerca, però, è resa difficile da numerose e grosse buche scavate di recente nella terra. “Gli elefanti!” esclama il vecchio in tono rassegnato. “Gli elefanti?” ripeto sbigottita.
“Eh già, elefanti allo stato brado. Ne è passato un branco di qui, la scorsa notte.” “Davvero? Allora ci conviene cercare una sistemazione altrove!” Ma il vecchio non pare impressionato: “Con loro non_si può mai sapere: oggi li trovi da una parte, domani dall’altra.
Quindi… Comunque, per precauzione, non lasciate mai cibo all’aperto”. Christian ferma il camper. Io, in ogni caso, preferirei non rimanere nei paraggi. “Sei sicuro che non rischiamo nulla?” domando.
“A quanto pare questi danni sono stati provocati da elefanti allo stato brado.”
“Non preoccuparti, Nanobus è robusto!”
E si frega le mani, soddisfatto, mentre i bambini sono l’immagine della perfetta felicità. “Potremmo adottarne uno piccolo?” “No, sarebbe meglio sei piccoli: uno per ciascuno.” “Si, ma per papà ce ne vuole uno grosso.” “Non diciamo stupidaggini! Piuttosto, pensiamo subito alla cena: non vorrei che l’odore del cibo attirasse quaggiù l’intera giungla.” La sera sta calando quando finiamo il vassoio di riso con cipolle. Bertrand si alza di scatto, solleva un braccio a indicare qualcosa e quasi urla: “Guardate!” Una decina di magnifici cervi sono comparsi al limitare della foresta e avanzano, incerti, verso la radura, presto seguiti da una fila interminabile di cervi e cerbiatti. “Incredibile! Vengono a migliaia!” esclama Caroline con entusiasmo. “Possiamo andare a vederli più da vicino?” Christian si alza a sua volta: “Va bene, seguitemi senza far rumore”. “Ma sarà prudente? Ricordati che da queste parti si aggirano anche le tigri” osservo io.
“Ci spingeremo solo fino a quei cespugli laggiù, che non sono poi così lontani.” Ci avviamo, guardinghi come pellirosse. Io mi tengo nella retroguardia, con i due più piccoli, e spio attentissima le tenebre. È già buio e la giungla va riempiendosi di strani richiami. Giungiamo allo scoperto. La mandria si è ferrnata di colpo: le teste si alzano, i quadrupedi si guardano attorno, allarmati.
Di cosa avranno paura?… Improvvisamente partono al galoppo e si precipitano nella nostra direzione. Sono scappata a gambe levate, tirandomi dietro i miei piccoli per duecento metri. Passata l’emozione, scoppiamo a ridere. “Se una fiera li ha spaventati più di noi, doveva trattarsi per lo meno di una tigre!” Appena finito di pronunciare queste parole, un urlo spaventoso mi raggela. Ridiventiamo tutti seri.
Lesti, risaliamo la china e raggiungiamo Nanobus. Il vecchio stava lì: “Era il grido di una iena. Voi però” aggiunge rimproverandoci, “non dovevate allontanarvi tanto. Qui nei pressi vive una tigre mangiatrice di uomini. Quest’anno ha divorato diciassette persone!” Un boato fenomenale mi ha svegliata di soprassalto. Il cuore mi batte a1l’impazzata. Christian si alza di scatto. Improvviso guizza un lampo accecante…
Ormai ho capito: arriva una tempesta! Lo schianto successivo è di tale potenza che Nanobus trema da capo a fondo. I bambini si sono alzati, e scendono ad ammassarsi sul nostro letto.
Poi, senza un preavviso, una violentissima raffica di vento si abbatte sul camper investendolo di fianco e scuotendolo. Penso, con terrore, a quei grandi alberi che ci circondano, a quei loro rami enormi, uno solo dei quali basterebbe a schiacciarci tutti; e penso ai fulmini, al ciclone che, ancora di recente, ha causato la morte di tremila persone. Il vento si fa sempre più violento. Ho paura! Un fragore cupo, spropositato, continuo, va acquistando ampiezza, come per annunciare l’imminenza di un pericolo. Sopravviene poi una nuova burrasca; di violenza inaudita, questa volta, e il camper subisce un urto terribile.
Christian balza in avanti e, con un salto, raggiunge la cabina e si mette al volante. “Le chiavi!” urla. In preda al panico, non riesco a trovare la tasca dei suoi calzoni. “Ah, ecco… tieni!” Partiamo a razzo, ci precipitiamo giù per la collina correndo come pazzi. All’uscita della foresta, una nuova raffica di vento quasi blocca Nanobus.
Enormi chicchi di grandine rimbalzano come pallottole sulla carrozzeria. Istintivamente cerchiamo tutti rifugio nella cabina: coperta com’è da un doppio tetto offre maggiore protezione. Quanto tempo siamo rimasti lì, intontiti dal fragore della tempesta, frastornati dalla paura e dalla stanchezza, non saprei dire…
Ora, la grandine e meno violenta, ma la pioggia continua a cadere instancabile e il terreno è diventato un acquitrino che va allargandosi a vista d’occhio. I bambini e Christian si sono riaddormentati. Io cerco di resistere con tutte le forze al sonno che mi assale per poter sorvegliare l’acqua il cui livello continua a salire intorno a noi.
11 gennaio STAMANI il cielo e di un azzurro intensissimo e l’aria è limpida. La tempesta ha lavato le foglie liberandole dalla polvere. La foresta offre una visione desolante: alberi sradicati, rami enormi annegati in una spessa fanghiglia. Abbiamo fatto bene a filarcela.
Prima colazione e, subito dopo, adunata generale: bisogna decidere dove andare, una volta finita la sosta nella giungla. Ci restano quasi cinque mesi da trascorrere in India e, di comune accordo, non vogliamo sprecarli macinando chilometri su chilometri in nome di un turismo fine a se stesso. Cercheremo di stabilirci in un luogo per conoscerne gli abitanti e stringere amicizie.
Da diversi giorni stiamo consultando attentamente, ciascuno per proprio conto, libri e guide, e ora è giunto il momento della votazione. “Lungi da me il proposito di influenzarvi” dice Christian, “ma considerate che il Rajasthan è una terra favolosa, dove l’Oriente rifulge in tutto il suo splendore in virtù dei palazzi, dai colori stupendi… “Papà, guarda che la campagna elettorale ormai è chiusa!” “Va bene, va bene.
Allora, tu, Eric, cosa scegli?” “Be’… lo stato di Orissa, tutto sommato, perché ci sono altre giungle e perfino i leoni.”
“Vada per l’Orissa. Tu, Isabelle?” “Orissa, anch’io.” “E tu, Bertrand, cosa avresti scelto?” “Il Rajasthan.” “Caroline?”
“A me piace il Kerala, per le sue belle spiagge e gli alberi di cocco.” “Marie-France?” “A dire il vero non saprei. Decidete voi.” “Allora, chiaramente, lunedì partiamo per il Rajasthan!”
“Caroline reagisce: “Ma papà, lo sai che hai una bella faccia tosta?” “Perché?” “Ma perché ti sei aggiudicato due soli voti, tanti quanti quelli andati all’Orissa.” Christian si alza ridendo e chiude la sessione: “Due, più quello della mamma! Lo sai, no, che la moglie deve seguire il marito.
Sta scritto nell’atto matrimoniale”.
Alwan Rajasthan,
13 gennaio PRIME immagini del Rajasthan: un paesaggio più spoglio, ma anche più bello. Il contrasto fra il colore ocra della terra dei campi e quello, sgargiante, degli indumenti della gente di quì. L’instancabile marcia dei cammelli attorno ai pozzi d’acqua. Convogli di carri colmi di canne da zucchero.
Grazioso ancheggiare delle contadine. Il loro portamento da principesse, con il lungo velo ricamato che le copre, i pesanti monili di cui si ornano, e, infine, la lucente giara di rame che portano sul capo.
Lo stupore è generale, all’intemo di Nanobus. I bambini cacciano urla di gioia ogni qualvolta, da noi disturbato, un animale straordinario si offre ai loro sguardi: uccelli dal piumaggio turchese, pappagalli verdi, magnifici pavoni, piccole scimmie dispettose.
Folla straripante per le vie di Alwar, strette fra minuscole botteghe. Scendo con Christian per fare la spesa. Gli abitanti della città si dividono all’istante in due parti: quelli che si accalcano attorno a Nanobus, circondandolo e spiando con curiosità i bambini, e gli altri, che si ammassano davanti al negozietto di verdure, dove ci siamo fermati noi due. Per tornare al nostro camper, dobbiamo fendere una muraglia umana. Anche a costo di perdere tempo, occorrerà assolutamente trovare un luogo dove la gente si abitui alla nostra presenza.
La Circuit House e un grosso bungalow ormai in abbandono, circondato da un parco invaso dalle sterpaglie. Un custode, vecchio e solitario, ci ha accolti con piacere evidente autorizzandoci a parcheggiare il camper proprio davanti all’edificio. All’epoca della dominazione inglese, le Circuit Houses ospitavano gli ufficiali e i funzionari dell’amministrazione britannica in trasferta. Il custode ci ha anche messo a disposizione una sala da bagno nella quale troneggia, a mo’ di vasca, un grosso catino di zinco.
L’intera famiglia ne ha subito approfittato abbandonandosi ad allegre baraonde. Ho cucinato un ottimo minestrone e abbiamo cenato in mezzo ai pavoni, tanto numerosi quì quanto i piccioni a Parigi. Christian ha scovato due vecchie poltrone di vimini e, mentre i bambini giocano e si rincorrono nel parco, ci siamo seduti sulla veranda a balcone per goderci le ultime ore della giornata. Quanta pace e quanta dolcezza nell’aria! Il gelsomino e la regina della notte riempiono il giardino dei loro intensi effluvi. Isabelle e Bertrand tornano di corsa, eccitati: gridano e intanto agitano delle specie di cinghie grigiastre. Vengono a posarle sulla mia gonna. “Guardate! Abbiamo trovato queste pelli di serpente!” “Eh no!
Toglietemele subito di dosso!” “È la stagione della muta” aggiunge Christian ridendo. Mi sento tremare: se ci sono tante pelli, devono esserci almeno altrettanti serpenti. Ho subito spedito tutti quanti a letto e mi sono categoricamente rifiutata di prendere a bordo di Nanobus i trofei della serata, a eccezione del bel mazzo di piume di pavone messo insieme da Caroline.
Jaipur
15 gennaio Città davvero straordinaria, questa Jaipur. Straordinaria per i suoi monumenti rosa, i suoi palazzi, le sue strade così ampie dove nulla più ci stupisce: né le scimmie sui tetti, né i cammelli al tiro, né gli elefanti in fila. Abbiamo avuto la fortuna di trovare un parcheggio nel giardino di una specie di ostello della gioventù.
Ci costa tre rupie al giorno ma per noi si tratta di una vera manna perché Nanobus riscuote un successo strepitoso ogni qualvolta si presenta sulla pubblica via e noi, almeno di sera, preferiamo starcene in santa pace. Rimaniamo meravigliati dall’azzurro del cielo, dal sole che già riscalda.
Pensare che siamo ancora a metà gennaio! Prima colazione sull’erba di un prato, e fra siepi di buganvillee. Ieri sono riuscita a trovare un barattolo di marmellata e ora i bambini non si fanno pregare due volte. “La tartina!” si mette improvvisamente a urlare Isabelle che, buffissima, rimane con una mano a mezz’aria e a bocca spalancata. “La mia tartina!” ripete sgranando gli occhi.
Noi scoppiamo tutti a ridere nel vedere la famosa tartina volar via stretta nel becco di uno di quei piccoli e vispissimi corvi che da queste parti si incontrano dappertutto. Un indiano, sulla cinquantina, che stava discorrendo con alcuni amici lì nei pressi, si stacca dal gruppo e si avvicina a noi, divertito: “Teneteli d’occhio, quelli lì, altrimenti vi rubano tutto!” Si sofferma a leggere le scritte sulla fiancata di Nanobus.
“Venite da tanto lontano?” La conversazione s’avvia. Narain (questo è il suo nome) e alle prese con i preparativi del matrimonio della figlia, che verrà celebrato qui, nel giorno stabilito dall’astrologo. “Vi trattenete fino alla prossima settimana? In tal caso, consideratevi miei ospiti. Venite, usatemi la cortesia; e poi, per i bambini sarà una festa bellissima.”
23 gennaio LA FAMIGLIA di Narain ci ha adottati. Lui, funzionario al ministero per i Rifugiati (quelli venuti dal Pakistan, all’epoca della scissione di quel paese dall’India) e dolcissimo con i miei figli, che lo adorano e lo chiamano “zio”. Così usa, da queste parti, fra amici intimi. “Se ci vogliamo così tanto bene “ torna a ripeterci spesso, “vuol dire che di sicuro abbiamo vissuto altre vite insieme!” Janah, sua moglie, e io siamo diventate grandi amiche; mi ha già insegnato a cucinare il curry in tante maniere, una più buona dell’altra.
Christian ha stretto amicizia con Vipin, un nipote di Narain, giovane, con un bel viso e gli occhi espressivi e irrequieti. Ama profondamente il suo paese e si strugge nel vedervi tanta miseria. Stanno via insieme giornate intere; vanno a visitare le bidonville e le fabbriche dove lavorano anche i bambini. Discutono animatamente, e fino a tarda notte. Ma ecco che, per l’appunto, Vipin viene a prenderci: andiamo a cena da loro. Chiudo con cura Nanobus tirando il catenaccio fatto installare dopo il furto.
Quando sbuchiamo in strada, Vipin chiama due ciclo-risciò. Christian si meraviglia: “Non ti senti in imbarazzo nel vedere un uomo penare tanto per portarti in giro?” Vipin risponde con una scrollata di spalle. “Da principio anch’io la pensavo così. Quando avevo sedici anni mi feci promotore di una petizione per l’abolizione di questo mezzo di trasporto, che consideravo degradante.
Ma poi mi chiesero quale altra attività suggerivo per mettere i conducenti in condizione di guadagnarsi da vivere. Da quel momento compresi che non li aiutavo di certo ignorandoli: così preferisco pagarli un po’ più del dovuto.”
A quel punto siamo saliti sui ciclo-risciò. Io mi sentivo veramente a disagio.
Nelle salite scendiamo tutti a terra, con sollievo, e proseguiamo a piedi, accanto ai veicoli.
La serata scorre all’insegna della semplicità e della familiarità. Mi rendo conto che, a poco a poco, andiamo assimilandoci all’India.
Qui, dove la gentilezza regna sovrana, io mi sento veramente bene! La cena, che consumiamo rapidamente, consiste in una varietà di curry deliziosi. La sorella di Vipin, Ashoo, è rimasta in camera sua: oggi digiuna affinché il fratello sia promosso a un esame che sta preparando. Bertrand trasecola. “Quando mai Isabelle digiunerebbe per me? Solo se le desse di volta il cervello!” Terminata la cena, Janah ci chiede di cantare per loro. “Prima, però, volete prendere un po’ di betel?
Aiuta la digestione.” Già, il betel: fino allora non mi ero azzardata ad assaggiarlo. “Si, grazie, proviamo!” Narain allora prende due foglie, d’un verde intenso, e, con la stessa cura di un alchimista, le cosparge di polverine e creme misteriose. Poi le arrotola delicatamente, le sigilla infilandovi un chiodo di garofano e ce le porge. Non appena metto in bocca la mia, mi viene la nausea.
Christian si e bloccato: non osa masticare. Sta lì, a bocca aperta. Narain ci guarda con tenerezza. Con un gesto discreto, deposito la foglia di betel nel mio piattino, quindi chiamo a raccolta i bambini e spero che i nostri canti facciano dimenticare le foglie abbandonate.
27 gennaio QUANDO apro il portellone di Nanobus, davanti a me vedo un cortile in festa. L’andirivieni e generale: sono in corso gli ultimi preparativi delle nozze; i bambini corrono ridendo, i sari colorati ondeggiano nel sole mattutino. Il camper troneggia fra una grande tenda a righe e un baldacchino ricoperto di fiori sotto il quale verrà celebrata la cerimonia religiosa. Narain ha insistito molto perché ci piazzassimo lì. Da questa mattina, i due più piccoli si agitano frenetici, eccitati. Corrono via, per tornare quasi subito.
“Presto, venite! Ci hanno invitati per la prima colazione. Vedrete quanti curry e quante patate saltate in padella!” “Cosa? Curry e patate saltate per prima colazione?” “E anche yogurt con le verdure dentro!” “Io preferirei un buon tè” dice Christian quasi gemendo. “E va bene, veniamo subito!”
Christian mi aiuta a indossare il sari bianco e rosso che Janah mi ha regalato. Devo ricorrere a un piccolo espediente per evitare che, mentre cammino, tutto quanto mi crolli addosso: fisso il drappeggio con alcune spille da balia. Mentre attraversiamo il cortile, salutiamo congiungendo le mani all’altezza del petto.
Ormai conosciamo quasi tutti: sono tre giorni che la festa va avanti. Bertrand e Caroline ci raggiungono. Hanno trascorso la notte con gli altri invitati, in una delle stanze adattate a dormitorio. Altri ospiti – quelli che per mancanza di posto hanno dovuto cercare un’altra sistemazione – si uniscono a loro volta alla folla. I musicisti sono già andati ai loro posti, sul prato, e soffiano nei loro strumenti come se volessero farsi scoppiare le guance. Assieme a Caroline vado a raggiungere le donne in cucina per dare una mano a lavare le verdure. “Più tardi dovete assolutamente cantare per tutti noi” mi dicono.
“Gli invitati ci tengono davvero molto.” Quando torniamo fuori, vediamo Bharati, la sposa, seduta sul prato e circondata da fanciulle che la preparano per la cerimonia. Graziosamente inginocchiate sull’erba, intingono lunghi bastoncini in un impasto di colore verdognolo e, con quelli, precise come miniaturisti, sulle mani e sui piedi della sposa dipingono finissimi motivi ornamentali che sembrano una trina. Isabelle, trepidante ed eccitata, mi corre incontro. “Preparano Bharati per stasera, quando vena il suo fidanzato. Guardate, avete visto? Ha trenta braccialetti per braccio!” “Sai dove sono i tuoi fratelli?” “Si, dietro la casa, a fare il chapati, credo.” Me li figuro, i miei maschi, alle prese con la farina per fare quella specie di pane sottile e non lievitato. Sarà meglio che vada a controllare: mi preoccupo per i loro vestiti di gala. “Guarda, mamma!” mi chiama il mio piccolo Eric, felice come una Pasqua. “Le facciamo noi le pallottoline per il chapati poi le mettiamo a cuocere sulla piastra!” Per quanto riguarda i vestiti, ormai arrivo troppo tardi. Vorrà dire che proverò a spazzolarli, più tardi.
IL PRANZO è stato succulento, anche se di tempo per gustarlo ce ne hanno concesso ben poco: in India la gente mangia in piedi, velocemente, quasi si trattasse di sbrigare un’incombenza imposta dalla necessità. Pomeriggio di giochi, di danze, di canti. A noi chiedono due volte il bis.
Cala la sera. Un uomo, molto elegante, si avvicina e mi fa un inchino; poi mi domanda, indicando la mappa di Nanobus: “Avete dunque visitato tutte quelle nazioni?”
Illustro brevemente il percorso compiuto e intanto studio il mio interlocutore.
Il turbante, impeccabile, nero come anche il gilé di seta; la barba, bianca, ben curata, stupenda; la lunga camicia indiana e i jodhpur: calzoni da cavallerizzo stretti al ginocchio.
Tutto in lui, nel modo di presentarsi e nel portamento, denota raffinatezza. I tratti del viso sono volitivi, ma nello sguardo si legge soprattutto la bontà.
“L’ammiro molto per quest’impresa e sono certo che i suoi figli imparano molto più che stando seduti sui banchi di scuola. Mi piacerebbe approfondire la vostra conoscenza: accettereste di venire a trascorrere alcuni giorni da me? Mi riempireste di gioia.
Mi faccia sapere qualcosa a questo indirizzo” dice porgendomi il suo biglietto di visita. “La ringrazio. Ne parlerò a mio marito.” Si allontana. Sopraggiungono altre persone, seguite da Narain.
“Posso prendere Eric con me?” mi chiede. “Ho bisogno di lui.” “Ma sì, certo.” Se ne sono andati via insieme, con fare misterioso. La notte stava già calando.
Appesi ai rami degli alberi, miriadi di lumini azzurri creano nel giardino un’atmosfera di fiaba. Ci uniamo alla folla degli invitati che converge verso un grazioso arco infiorato. Gli sguardi si dirigono tutti verso destra, da dove giunge una musica lontana. All’improvviso ecco che una, e poi due, dieci, cento innumerevoli fiammelle disegnano nel cielo all’orizzonte un magico alone luminoso.
Tutti trattengono il respiro. La musica acquista volume e profondità: tamburi, piatti, trombe. Ed ecco che, come scaturito dalle Mille e una notte, un corteo irreale s’avanza: cento e cento fiaccole inondano di luce una folla gioiosa facendo brillare i monili e gli sguardi. Stretti in cerchio attorno a danzatori sfrenati, musicisti dal turbante rosso aprono la via a elefanti ammantati di paramenti di seta e d’argento e che portano personaggi fiabeschi: primo fra tutti lo sposo che indossa una redingote intessuta d’oro e un turbante ornato da un aspri e da diamanti dai mille fuochi. Viene poi, oscillando nel suo palanchino d’argento, un paggetto: pare ammirato, gli occhi gli brillano e sorride con un sorriso che sembra venuto da un altro mondo.
Un cornac, vestito tutto di bianco a eccezione del turbante rosso, lo regge delicatamente per la vita, sulla nuca dell’elefante. Sento la mano di Caroline stringere la mia; “Eric!”
Con l’aiuto di alcuni uomini, lo sposo scende maestosamente a terra, ma lascia l’elefante solo per salire su di un cavallo bianco. Il ritmo della musica allora si fa più serrato e dal gruppo di danzatori si staccano alcune figure: piroettando mimano un rapimento. Improvvisamente, alle nostre spalle si alza un vociare concitato.
In cima alla scalinata compare Bharati: tiene lo sguardo abbassato, ma è stupenda. Indossa il sari nuziale rosso ricamato con fili d’oro. Sul capo, un rivolo di pietre preziose sottolinea la riga che divide i capelli nero-corvino; sulla fronte porta un pendaglio e, sul lato esterno di una narice, un cerchietto d’oro; e poi orecchini, collane e braccialetti e tanti gioielli, a cascata, che splendono e fanno rifulgere ancor di più la sua bellezza. Seguito dal fiabesco corteo, il fidanzato viene avanti fra due ali di folla.
I musici ora tacciono. Il fidanzato mette piede a terra. A quel punto, con un gesto gentile di benvenuto, Bharati gli infila al collo una lunga ghirlanda di fiori. Gli sposi raggiungono poi insieme il baldacchino ricoperto di fiori e si siedono a gambe incrociate davanti al fuoco nuziale e al brahmano, il sacerdote addetto al controllo della cerimonia. Ci stringiamo in cerchio attorno a loro e la cerimonia comincia tra fumi d’incenso. Il brahmano annoda un capo del velo di Bharati alla tunica del fidanzato.
Quindi prende a salmodiare misteriose litanie alle quali rispondono i soli sposi che nel contempo impastano strane sostanze nelle coppette poste di fronte a loro. Di quando in quando con la punta delle dita prelevano un pizzico di quella miscela e lo gettano tra le fiamme, facendole crepitare. Il celebrante, quindi, con gesti lenti, prende la mano destra di Bharati e la sinistra dello sposo, vi depone terra e riso e le lega insieme con una striscia di stoffa, di colore giallo. In tal modo uniti l’uno all’altra, gli sposi si alzano in piedi e compiono vari giri intorno al fuoco. Guardo i bambini.
Dalla luce che vedo brillare nei loro occhi capisco che questa sera si e materializzato per loro quell’Oriente meraviglioso tanto sognato in segreto. E ormai notte fonda quando torniamo a bordo di Nanobus. Narain porta in braccio il nostro paggetto addormentato.
Ancora abbacinati dalla cerimonia, ma barcollanti per la stanchezza, i bambini si spogliano in silenzio. Prima di lasciarci, Narain si china a baciarli. Gli mostro allora il biglietto di visita di quel signore tanto elegante.
“Ci ha invitati a casa sua. Lei lo conosce?” “Il maharaja Grewal?” Narain non nasconde la sorpresa.
“Vi ha invitati? Un onore riservato a ben poche persone. Voi, comunque, non perdete questa occasione: vi riceveranno in maniera principesca.”
Sikanderpur, Haryana,
30 gennaio “SEI PROPRIO sicura che vive da queste parti, il tuo maharaja? “ mi chiede Christian. Torno a consultare le carte. “Beh, ecco… non lo so. Dovremmo aver superato da tempo quella strada secondaria. Aspetta, guarda! Vedi quell’uomo laggiù, all’incrocio? Ci chiama.” Christian va a fermarsi accanto a lui. “Il maharaja Grewal?” Si, è da questa parte. Gli hanno ordinato di aspettarci qui e di accompagnarci.
Poveretto, chissà da quanto tempo aspettava… Inforca una bicicletta nera e con un cenno ci invita a seguirlo lungo una carrareccia alberata. Un ingresso adornato con un arco di pietra, un immenso piazzale, poi un grande edificio rosa circondato da colonnati. All’istante, un nugolo di venerandi servitori vestiti di bianco si precipita ad accoglierci. Si inchinano, congiungendo le mani davanti al turbante.
Scendiamo a terra e, rispondendo al saluto con un altro saluto indiano, abbassiamo il capo e stringiamo l’una contro l’altra le palme delle mani. Un uomo, che porta gli occhiali, ci dice in inglese: “Vi porgo il benvenuto. Sono il primo segretario del maharaja Grewal. Il signore mi ha incaricato di ricevervi. Questi uomini vi condurranno alle vostre stanze”. Cosa? Le nostre stanze? La novita mi fa trasalire.
No di certo. Da mesi restiamo fedeli a Nanobus e non l’abbiamo tradito neppure per una notte. Oltretutto, con quello che c’é dentro, sarebbe una follia! La lezione di Delhi ci è bastata, in fatto di furti. Con un gran sorriso rispondo: “La ringraziamo tanto, ma siamo abituati a dormire sul camper e…” Il primo segretario mi guarda con la più afflitta delle espressioni. “Le stanze sono state preparate appositamente per ricevervi.
Il maharaja si è tanto raccomandato. “ Si gira verso il manipolo di barbuti e dignitosi servitori.
“Questi uomini porteranno i vostri effetti personali.” Inutile tentare di opporsi, a quanto pare. I nostri effetti personali! Sai quanto rimarranno delusi se pensano a belle valigie pulite! Christian apre con gesto signorile il portellone di Nanobus; vi saliamo in fila per uno e diamo inizio al glorioso trasbordo. Ci viene da ridere, anche se non lo diamo a vedere, davanti a quella scena: i servitori vengono avanti a uno a uno, fanno la riverenza, tendono le mani e, con grande rispetto, si allontanano carichi di calzini, pigiama, saponette e spazzolini da denti. Raggiungiamo i nostri appartamenti. Davanti a ogni porta sta, a braccia conserte sul petto, uno stupendo maggiordomo dai baffi impressionanti. Altro giro di riverenze. “Disponete pure di loro per ogni vostra necessita.” “Eh? Ma no… Le assicuro, non occorre costringerli a rimanere li. Non ci servirà nulla.”
“Ma il maharaja…” “Ah, allora… va bene!” Le stanze sono immense; i bambini corrono per ogni dove, esplorando i nostri possedimenti. Caroline mi tira per una manica: “Vieni a vedere la nostra stanza da bagno!” Lavandini, vasche, acqua corrente… Quanto lusso! Il primo segretario si congeda rispettosamente: “A vostro piacimento siete attesi in salone”. Prima che io abbia il tempo di ringraziare, un urlo echeggia nella stanza accanto. Mi precipito: proviene dall’armadio. Seduti sui loro letti, i due maschi mi guardano con un’espressione innocente. “Apritemi immediatamente quell’affare!” intimo.
Mentre Bertrand libera una Isabelle piangente, io li sgrido: “Pensate piuttosto a prepararvi per la cena. Eric, tu prima devi andare in bagno. Isabelle, tu devi mettere nel piatto solo ciò che ti entrerà in pancia!
Come al solito, poi, nessuno avrà sete. Intesi?” Puliti e lucidi ci avviamo verso il salone.
Grandi candelabri rischiarano un ambiente sfarzoso. Un cameriere ci serve l’aperitivo su di un vassoio d’argento: me al latte, salatini piccanti indiani, dolciumi…
Il maharaja, sempre molto elegante, ci viene incontro sorridendo e a braccia aperte. Oggi, turbante e gilé sono di color beige. “Benvenuti! Che piacere vedervi! Avete tutto quanto vi occorre?” Si gira a guardare i bambini. “Saranno stanchi e affamati.
Se credete, possiamo metterci subito a tavola.” Una porta viene spalancata su di un’imponente sala da pranzo. L’immenso tavolo è oocupato solo in minima parte dai nostri coperti. Il maharaja ci indica i posti. Un’anziana signora viene a sedersi accanto a lui. Veste una lunga tunica, pantaloni a sbuffo stretti alle caviglie e un ampio velo che le ricade, lieve e aggraziato, sulle spalle. “Mia madre! “ annuncia il nostro ospite. “Ha gia cenato, ma vuole accertarsi del buon andamento del servizio.”
Ci alziamo tutti in piedi e le rivolgiamo un inchino accompagnato dal saluto delle mani congiunte all’altezza del petto. Il raffinato vasellame brilla alla luce dei lampadari. I bambini sembrano molto impressionati. Mentre fra Christian e il maharaja si avvia la conversazione, mi viene presentato un vassoio carico di innumerevoli piattini colmi di quegli intingoli al curry che comincio a ben conoscere. Fin dal primo assaggio rimango incantata: “Non abbiamo mai gustato simili delizie! “ Il maharaja sembra lieto del1’apprezzamento. Mi accorgo che fra tutto quel ben di Dio manca totalmente la carne. “Lei è forse vegetariano? “ domando. Quasi cerimoniosa giunge la risposta: “Questa casa è molto antica, dovete sapere; ebbene, a memoria d’uomo, mai un solo grammo di carne, di uovo o di alcol è entrato sotto il suo tetto. E sempre così sarà, finché rimarro in vita”.
Quelle parole mi riempiono di sgomento perché penso a quella bottiglia di liquore alla menta che Christian, in previsione di laboriose digestioni, ha posato sul comodino violando così d’un sol colpo precetti tanto severamente osservati per generazioni e generazioni. Occorre passare subito all’azione perché molto probabilmente, dopo cena, il maharaja ci accompagnerà nelle nostre stanze. Afferro per una mano Eric, che mi guarda sbalordito, e prima che un cameriere offra i suoi servigi, lo trascino verso l’uscita. “Chiedo scusa, devo accompagnarlo al bagno!” dichiaro.
Mentre richiudo la porta, sento che Christian dice sospirando: “Non impareranno mai! Eppure lo sanno che devono premunirsi!” Rassicuro Eric, corro in camera e faccio sparire sotto il cuscino la bottiglia sacrilega. Dopo di che torniamo a tavola, sotto lo sguardo comprensivo e paterno del maharaja. La cena volge al termine. D’un tratto il nostro ospite si accorge dei bicchieroni rimasti colmi d’acqua. “Ma non bevete?” c’interroga. Be’, certo, la cosa si nota parecchio. D’altra parte come confidargli, senza offenderlo, che non ci fidiamo della purezza della sua acqua? Christian si lancia in una confusa concione tirando in ballo l’aerofagia, quel medico che… e poi, comunque, il fatto e che nessuno ha sete…
A onor del vero quella spiegazione, ancorché poco convincente, risulta assai buffa in inglese, tanto che il maharaja gli risponde sorridendo: “Deve sapere che in casa mia l’acqua viene filtrata “. Chiama un maggiordomo che posa un apparecchio sul tavolo. “L’ho portato dall’America. Con questo, potete stare tranquilli.” Rosso come un peperone, Christian si gira dalla nostra parte; “E sia.
Bevete pure!” I bambini afferrano immediatamente i bicchieri, bevono come spugne e li posano nuovamente sul tavolo con un sospiro di soddisfazione intensa. Alle loro spalle, i camerieri visibilmente stupiti si affrettano a riempire di nuovo i calici. La sete si placa solo al terzo servizio. Divertito, il maharaja si alza in piedi, “Mi pare sia giunta l’ora del riposo, poiché domani ci attende una giornata densa di avvenimenti: vi attendo alle nove per il giro della proprietà, poi visiteremo il nostro stabilimento per la lavorazione della canna da zucchero.
Nel pomeriggio vi accompagnerò alla filanda. Intanto, però, ditemi: vi occorre acqua per la notte? Ne è avanzata, mi pare. “ Solleva il coperchio del famoso apparecchio. “Oh, ma che sbadato! Anche stavolta si è dimenticato di inserire il cilindretto filtrante!” Christian mi fa un cenno: stasera dovremo mandar giù tutti quanti una bella dose di disinfettante. I bambini baciano il nostro ospite con effusione.
Quella vezzosetta di Isabelle non riemerge più da sotto la sua barba: “Buonanotte, maharaja!” Il nostro amico ride di cuore e le da un pizzicotto affettuoso sulla guancia esclamando: “Chiamatemi zio!”
Pushar,
Rajasthan, 6 febbraio Il sole arroventa le stradine polverose di Pushkar. Tanto strette sono, quelle stradine, che Nanobus sfiora pericolosamente le merci appese davanti ai minuscoli negozi. In giro si vede poca gente: e l’ora della siesta. Stiamo avanzando all’andatura di un sarto ambulante che, davanti a noi, spinge un carrettino sul quale ha caricato la vetusta macchina per cucire, e di una vacca così poco timorosa di Nanobus che praticamente gli si è seduta sul cofano. Sarebbe inutile tentare di superarli.
Ma poi, perché dovremmo? Mi rendo conto che stiamo sempre più assimilando i ritmi di vita di questo paese.” Preceduti da quella scorta, sbuchiamo su di una piazzetta. Stravaccati su sedie sghembe, sonnecchiano gli avventori di alcune bettole all’interno delle quali si intravedono pentoloni fumanti.
Christian si ferma. Mi sporgo dal finestrino: “Per piacere, la strada per il Iago?” Un indiano, cinto da un dhoti (una specie di larga striscia di stoffa avvolta attomo ai fianchi) e a petto nudo, si alza e si avvicina al camper.
Con un sorriso tinto di rosso dal betel che sta masticando, si lancia in una spiegazione accompagnata da un gran gesticolare; poi ci ripensa e “Vi accompagno!” Non mi lascia il tempo di rispondergli e, aperto lo sportello, salta sul sedile quasi buttandomi in braccio a Christian.
Quel moretto cicciottello, dai capelli lucidi di olio, si chiama Narayan e deve avere una trentina d’anni. Mentre Christian rimette in moto, prende a raccontarci del lago di Pushkar e della sua mitologia. E una storia assai complessa dalla quale si ricava, in sostanza, che un bel giorno il dio Brahma lascio cadere dal cielo un petalo di loto che si posa sul suolo: in quel luogo preciso si formo, dal nulla, il lago sacro…
Ed eccolo lì, il famoso lago… la sua presenza, fra queste colline brulle e spelacchiate, effettivamente ha del miracoloso. “Fermatevi qui.” Il nostro accompagnatore è premuroso.
Ci propone la visita di un tempio. Affrontiamo, di buon passo, l’ascensione di una collina, ma il sole picchia sodo. Io e Christian, che suda copiosamente, rimaniamo un po’ distaccati mentre i bambini e la nostra guida, Narayan, si arrampicano agili come capretti. Arriviamo in cima quasi arrancando.
Un vecchio sorveglia l’ingresso, seduto con la schiena appoggiata al muro, dietro la fila ordinata delle scarpe dei bambini. Gli consegniamo le nostre due paia e ci avviamo verso l’ingresso; ma lui, puntando un dito verso la mia borsa afghana, scuote la testa facendo cenno di “no”.
Dalla sua mimica capisco immediatamente che sarebbe un sacrilegio entrare nel perimetro del tempio portando quell’oggetto, manifestamente ricavato da una pelle di vacca.
Allora consegno anche la borsa al custode. Un altro vecchio ci passa intorno al collo una collana di garofani d’India. Così ridotti, in calzini, entriamo in punta di piedi nel perimetro del tempio pensando di trovarvi silenzio, raccoglimento e orazioni. Veniamo invece accolti, nel cortile interno, da un’allegra brigata di animali: scimmie che dall’alto dei muri fanno sberleffi, una vacca, molti uccelli, qualche cane.
Da queste parti, Dio ama ancora gli animali, d’un amore certamente ricambiato. Dentro il tempio troviamo una folta e rumorosa congregazione. Prima di entrare, il pellegrino deve battere forte il batacchio della campana sospesa sopra l’ingresso. Christian e Narayan hanno preso in braccio i due più piccoli, che mai e poi mai rinuncerebbero a fare come tutti gli altri, e poi sono andati, con Bertrand, a unirsi agli uomini nel settore a loro riservato e delimitato da una piccola transenna. Io ho seguito Caroline nel settore delle donne.
Alzando lo sguardo ho osservato le decine di figure colorate che ornavano le pareti. Ho fatto una scoperta che mi ha lasciata di sasso: fra una pingue divinità dalla testa di elefante, Ganesa, e un Krishna tutto azzurro, campeggiavano un Sacro Cuore e una eterea Madonna! Accovacciato dietro a un tamburo gigantesco, un uomo ha preso a battere violentemente su quello strumento alla cui voce si sono presto unite, tutte insieme, quelle delle campane e di una conca – sorta di tromba – in una cacofonia fenomenale che, come un tuono, è andata aumentando di volume, mentre il ritmo si accelerava.
La congregazione si è messa a ballare, salmodiando a tempo e battendo le mani. Mentre Christian e i bambini si sono immediatamente uniti a tutti gli altri con un entusiasmo del tutto genuino dandosi alla pazza gioia, io ho seguito ben più timidamente l’esempio dei fedeli indiani.
Ma poi, a poco a poco, mi sono sentita conquistare dalla gioia prorompente delle vicine e cosi, ben presto, e con mia stessa sorpresa, mi sono ritrovata a ballare, un po’ inebriata dal frastuono e dall’odore penetrante dei fiori e dell’incenso. Il ritmo è andato rallentando e la calma è tornata gradatamente.
Siamo usciti carichi di entusiasmo e siamo corsi allegramente giù per la collina nutrendo in cuore la certezza della presenza di Dio, qui e ovunque. Mi sentivo appagata. Per la prima volta mi abbandonavo alla sensazione, meravigliosa, di non essere un corpo totalmente estraneo a questa folla dalla quale emanava una pace radiosa.
Più tardi Narayan ci propone la visita degli altri templi della regione. (Ancora non sapevamo che sono migliaia). E così passiamo il resto della giornata a seguire quasi di corsa la nostra guida, davvero instancabile e inesauribile. Si ferma a dissetarsi a tutte le acque sacre che si incontrano nelle vicinanze dei templi: scostando delicatamente la vegetazione galleggiante, raccoglie rispettosamente nel palmo della mano quell’acqua stagnante e verdognola.
Ogni volta ci incita a imitarlo, e noi lo accontenteremmo volentieri, ma… nessuno ha sete, davvero!
Sul far della notte, Narayan ci ha lasciati; esausti, ci siamo stesi in terra tutti e sei, accanto a Nanobus, ebbri di sole e di stanchezza, inebetiti da tutte quelle divinità che sfoggiavano chi otto braccia, chi una proboscide e chi una testa di scimmia.
Quando, nel salutarci, ci ha annunciato: “Domani altri templi!” ci siamo guardati in silenzio.
Poi Christian lo ha ringraziato tantissimo, prima di spiegargli, con uno di quei suoi discorsi un po’ confusi, che effettivamente i templi sono molto interessanti, oltre che belli, ma che noi vorremmo non tanto andarcene in giro come stranieri, quanto vivere in semplicità e tranquillità la vita della gente del posto, per conoscerla meglio.
Sul viso di Narayan compare allora un ampio sorriso in cui c’e gioia e incredulità ed esclama: “Ma allora, domani vi porto al mio villaggio!”
Villaggio Badi Basti
20 febbraio PER QUASI quindici giorni non sono riuscita ad aprire il mio quaderno di viaggio. Tale è stato all’inizio il successo riscosso da Nanobus che non ho mai avuto il tempo di scrivere.
Eppure ci eravamo cautelati andando a parcheggiarlo, anche per non dare fastidio, in un luogo appartato e relativamente lontano dal villaggio del nostro amico Narayan.
Il villaggio… qualche casupola fatta di terra e paglia, al limitare del deserto. Il colore predominante e un tenue beige rosato, dovuto all’impasto di creta e sterco di vacca che le donne applicano sui muri. Da queste parti non si vive sotto la cappa di quella miseria, senza speranza, tipica delle città, ma in uno stato di povertà equamente ripartito e perciò forse meno crudele poiché non convive con la ricchezza e le tentazioni.
Arjun, il nostro più immediato vicino, un bel giovanottone robusto che sfoggia un paio di baffoni neri, vive in una piccolissima abitazione: una stanzetta dalle pareti disadorne, un giaciglio di corde intrecciate posato sulla terra battuta, pochi utensili da cucina riuniti attorno a un focolare scavato nella nuda terra. Indossa un enorme turbante rosso e, sopra al dhoti, una camicia bianca molto ampia.
Quello che di lui più ci sorprende sono i sandali ricamati con la punta ricurva e il raffinato monile che porta appeso all’orecchio sinistro. Ci ha immediatamente invitati a casa sua, con grande cortesia.
Avant’ieri, da sotto al letto ha estratto la fotografia colorata a mano di un venerabile vegliardo. E il suo guru, ci ha spiegato, e sta mettendo da parte i soldi per andare a vederlo un giorno, in occasione di una di quelle cerimonie religiose che riuniscono parecchie migliaia di fedeli.
Una sola occhiata del maestro basterebbe a riempirlo di felicità per il resto dei suoi giorni. Ci ha anche portati a visitare il suo piccolo campo di canna da zucchero, vasto si e no mezzo ettaro. Ha sbucciato una canna e ci ha insegnato a estrarne il succo fresco con un morso.
Decidiamo di aiutarlo nella raccolta. Abbiamo trascorso il pomeriggio nel campo. Caroline e io eravamo addette al taglio. Con sempre rinnovata ammirazione osservo la grazia e l’abilità delle tante donne al lavoro, vestite come principesse: l’ampia gonna, il bustino ricamato, i pesanti monili, il velo dai colori sgargianti. Da principio si divertivano parecchio nel vederci cosi impacciate, ma poi, gentilmente, ci hanno insegnato a maneggiare meglio la roncoletta per tagliare e sfogliare le canne. Alla fine abbiamo finito per prendere un certo ritmo e, anche se il nostro rendimento non è eccezionale, sono contenta di partecipare al loro lavoro. Christian e i maschi, intanto, erano all’opera all’estremità del campo, dove gli uomini producono lo zucchero.
Ogni tanto una donna si caricava sul capo un grosso fascio di canne tagliate e lo portava laggiù. Alla fine della giornata, esauste, siamo andate a raggiungere gli altri attorno al rudimentale macchinario. Bertrand, tutto compreso dell’importanza del momento, aiutava a infilare le canne a una a una sotto la macina, azionata da uno zebù condotto da Eric. Siamo rimasti a lungo a guardare l’ultima colata di sciroppo brunastro ribollire nel grande paiolo; Arjun, intanto, raccoglieva in un paniere i panetti di zucchero messi a raffreddare sulla paglia.
1° marzo SIEDO all’ombra di un grosso baniano; una brezza tiepida ne agita le foglie polverose e quel movimento sparge sul suolo chiazze danzanti di luce solare. Sento cigolare la grossa carrucola del pozzo intorno al quale gli uomini della mia famiglia hanno trascorso il pomeriggio insieme con Arjun.
Oggi, giorno di irrigazione, bisogna aiutarlo a svuotare l’enorme otre di cuoio riportato in superficie, con un moto senza fine, da una coppia di buoi. Caroline impara a filare il cotone e Isabelle, intanto, con un’altra delle sue trovate, va in giro con le amiche a raccogliere sterco di vacca.
So bene che rimanendo qui finiremo, senza accorgercene, per lasciarci catturare per sempre dall’India. Non cerchiamo più di “vederla” soltanto. In questo momento stiamo vivendola profondamente dal di dentro.
Poco lontano da me vedo passare le donne in lenta fila: portano in equilibrio sul capo le giare e mi salutano con cenni della mano. Nel vederle vivere cosi serene, cosi allegre, nonostante le tribolazioni quotidiane, imparo ad apprezzare le gioie elementari di un presente vissuto intensamente sotto lo sguardo di Dio.
A poco a poco andiamo perdendo la nozione del tempo.
Dal giomo in cui ci siamo messi in viaggio sono passati ormai sette mesi e, visto da qui, adesso ci appare quanto mai estraneo il nostro modo di vivere in Francia. Mi domando, ora, come ho potuto mai sentire il bisogno di un grande appartamento, di vasellame raffinato, di argenteria… Sono quasi certa che tutto questo in futuro conterà ben poco per me. Nel nostro mondo di adesso, nel mondo di Nanobus, i piatti sono incrinati e al loro posto usiamo i coperchi delle gamelle. Eppure, la minestra lascia in bocca il sapore dell’allegria.
Ben volentieri sarei rimasta più a lungo in quel villaggio; ma dobbiamo riprendere il cammino, partire per il Nepal se, al ritorno, non vogliamo soffrire troppo il caldo.
Christian Benares,
10 marzo FIN DALL’ARRIVO, ieri, a Benares ci siamo subito resi conto che non potevamo posteggiare Nanobus nell’intrico fittissimo di viuzze in mezzo al quale scorre il Gange. Perciò, anche a costo di dover vestire i panni dei turisti, ci siamo prenotati per una visita guidata. La notte è più scura degli occhi di una donna del Rajaput quando il pullman ci conduce verso il Gange. A bordo sentiamo parlare inglese, tedesco e perfino francese, come queste due mature signore sedute alla nostra destra.
Sono le cinque del mattino, l’ora in cui, così dicono, tutto può accadere. Attorno a noi le vie cominciano ad animarsi: uomini scendono in strada portando vasi di rame; una giovane donna stringe fra le mani una piccola coppa: l’offerta per gli dei. Dall’ombra sorgono, a frotte, lebbrosi e sciancati.
La scena mi turba profondamente: troppa miseria, qui. Il pullman si ferma davanti alle famose ghat, ampie scalinate che scendono fin sulla riva del fiume e su cui vengono bruciati i morti. Pronti a muovere, ritti in piedi nell’ombra vicino all’acqua, ci attendono i barcaioli. Mi tornano alla mente questi nomi magici: Benares, il Gange; e allora mi assale un turbamento perché mi rendo conto che, ancora una volta, sto per usare violenza a un mio sogno. Ci stacchiamo dalla riva, scivoliamo lungo il fiume, che sembra d’olio.
Vediamo l’orizzonte imbiancarsi e poi infiammarsi.
Si alza il dio Sole. Bruscamente disvelati, gli argini si mostrano in piena luce e allora, d’un tratto, provo un sentimento quasi insopportabile di vergogna, perché sulle nostre barche vedo solo curiosi indecenti, grotteschi guardoni armati di macchine fotografiche. Scattano a raffica, in piedi e indifferenti: clic, contro quella vecchia donna immersa nell’acqua fredda; clac, contro quell’uomo che beve e risputa; clic e ancora clic, contro quelle giovani che hanno il sari bagnato incollato sul corpo. Clac, di nuovo, questa volta per fotografare i cadaveri fumanti sui roghi. “È proibito” osa obiettare timidamente l’uomo alla voga, un vecchio dallo sguardo dolce e dalla pelle color dell’ebano. Ma chi se ne importa? Altrimenti, perché venire fin qui? Ci avviciniamo di più alla riva: per spiarvi meglio, per osservarvi dappresso…
Perdonateci! Mi vergogno. Non tornerò mai più a Benares, se non per inginocchiarmi al vostro fianco, per raccogliermi in preghiera con voi, per partecipare alla vostra speranza… Quando sbarchiamo, abbandoniamo il gruppo e ciascuno di noi porta nel cuore una spina.
Nelle viuzze, il sole splende; la città profuma di incenso, di fiori, di ghee, il burro rituale raffinato cinque volte. Una bimbetta, scalza e sporca fino all’inverosimile, ma con degli occhi profondi come il mare, si avvicina. Allungando una manina lercia mi porge con un sorriso un pezzetto del cibo che sta biascicando.
Mentre mi guarda, ingoio quel tesoro, improvvisamente indifferente alla sporcizia, ai microbi. Non dimenticherò mai quel gesto che cancella in un colpo tutte le bassezze della terra.
Tratto dal libro “In camper a Katmandu” appunti di viaggio dei Des Pallieres Edito da Selezione dal Reader’s Digest, condensato da “Quatre enfants et un rêve” éditions Albin Michel Paris.
Segue la 5° parte: (Con Nanobus a Katmandu 1977)
Clicca qui: Finalmente a Katmandu 1977