(2° parte di: Con Nanobus a Katmandu 1977)
E se andassimo in capo al mondo? Chi non ha mai detto questa frase, in famiglia o agli amici, almeno una volta nella vita? E così che un bel giorno, senza pensarci due volte, Christian e Marie-France Des Palliéres decidono di partire in camper, con i loro quattro bambini, per un lunghissimo viaggio fino al paese dei maharaja. Con pochi soldi, nessuna amicizia influente, né facilitazioni particolari, l’impresa appare come una pura follia agli occhi di amici e conoscenti. Ma i Des Palliéres non ascoltano consigli: ricchi di coraggio e di entusiasmo, si gettano a corpo morto nei preparativi della partenza. E il miracolo si compie: tutte le difficoltà che sembravano insormontabili cadono come un castello di carta… di Christian e Marie-France Des Palliéres
Marie-France
Gorgan, 10 ottobre Il sole; al tramonto tinge di rosso la steppa che, così, assume un aspetto ancora più impressionante. Mentre, dietro, i bambini già sonnecchiano, Nanobus ronfa con regolarità e Christian guida immerso in chissà quali pensieri. La giornata è stata lunga. Siamo partiti prima dell’alba, per non rimanere invischiati nel traffico caotico di Teheran. Rivedo ancora il sole sorgere fra i monti dell’Elburz, e poi, superato un valico scosceso, la discesa, quindi l’eccitazione dei bambini che vedevano avvicinarsi il Mar Caspio. Dopo tanti deserti torridi, ci siamo tuffati come matti in quel mare dalla sabbia grigiastra e tanto saturo di sale che ci galleggiavamo come tappi. Siamo rimasti ore e ore a schiamazzare in quell’acqua tiepida e cosi, quando abbiamo ripreso il viaggio, s’era fatto tardi. Non vedo l’ora di arrivare a Gorgan, perché la notte cala rapidamente. “Come si chiama quel posto dove ti hanno detto che si può campeggiare?” domanda Christian. Torno in me bruscamente. Devo essermi appisolata. Nanobus è fermo in una strada buia. Quel pezzetto di carta, sul quale avevo annotato il nome del campeggio, lo ritrovo nel cruscotto.
“Park Jangali Nahar Khoran. Prima però bisogna trovare il pane e la verdura: non mi rimane nulla.” Christian mi indica una botteguccia, immersa nella semioscurità. In mostra, appese ai ganci, vedo le grosse gallette che qui vengono usate al posto del pane. Accompagnata da Bertrand, mi precipito a sceglierne tre, ancora calde calde. Poi, attraversata la strada, compro un po’ di patate e di cipolle. Per stasera può bastare. “Park Jangali Nahar Khoran?…” Christian si sfiata a ripetere quel nome, tentando ogni possibile accentazione, ai rari passanti, dallo sguardo nero quanto il pelo. Da un’ora giriamo a vuoto in questa città. Mi sento insicura e le facce che andiamo incontrando non mi invogliano certo a far parcheggiare Nanobus dove capita. Una lunga strada buia e, in fondo a quella, un gruppetto riunito a parlare sotto un lampione dalla luce spettrale. “Park Jangali Nahar?...” Si, lo conoscono! Sospiro di sollievo! Dista una decina di chilometri, lassù tra i monti. La strada stretta s’inerpica, in un susseguirsi di tornanti, fino a una lugubre radura. All’estremita di questa, una specie di bar tiene ancora le luci accese. “Credi che siamo arrivati?” “Per forza! La strada finisce qui.” Delusione. Speravo, nonostante tutto, di trovare un luogo più rassicurante, più protetto, e magari provvisto d’acqua. Rapidamente, preparo i bambini per la notte. Per la cena, lasciamo perdere: tanto già dormono. Dopo, con Christian mando giù qualche cucchiaiata di minestra riscaldata. Crolliamo dal sonno anche noi. Qualcuno bussa alla porta posteriore.
“Police! No camping!” Un militare esagitato, e con la baionetta inastata, ci intima di sgombrare. Indicandogli i bambini addormentati, Christian cerca pazientemente di fargli capire che non sappiamo in quale altro posto andare a passare la notte. Ma invano. Io sono fuori di me. Anche mio marito si innervosisce e chiede di parlare con il comandante. L’altro si inalbera ancor di più e giunge a minacciare, a muso duro, con la baionetta. Fortunatamente, sopraggiunge un secondo militare, che capisce un po’ di più l’inglese. Comincia una lunga discussione. Christian gli ficca sotto il naso tutti i documenti più o meno ufficiali in nostro possesso e finisce per ottenere che, per questa notte, chiudano un occhio, ma a nostro rischio e pericolo! A questo punto, mi spavento. Conciliabolo con Christian: staremo in guardia, a turno. Un pallido chiaror lunare ci consente di vedere fino a un ponticello, laggiù in fondo, ma in compenso quella luce fioca diffonde ombre sinistre su tutto il paesaggio. Christian, manovrando in retromarcia, spinge il camper contro un albero: occorre assolutamente bloccare quella portiera posteriore la cui serratura è ancora così difettosa. Lascia inserita nel quadro la chiavetta dell’accensione e prende accanto a sé la famosa bomboletta. “Tu dormi, io faccio il primo turno” dichiara. Ho cacciato un urlo mentre mi risvegliavo. Christian balza sul sedile anteriore e parte a razzo, come un matto, tenendo premuto il clacson in continuazione. Nanobus sbanda terribilmente, evita due uomini che si tirano indietro con un balzo, e si butta giù per la discesa a un’andatura dissennata. Vado a sbattere con la testa contro il frigorifero, casco di lato, contro il finestrino. La curva! Finiremo fuori strada! “Fermati! Sei pazzo! L’albero!” Chiudo gli occhi. Ci rovesceremo…
Una frenata brusca, disperata. “Tira i bambini giù dal letto a mansarda, e battiamocela”. I bambini vengono giù brancolando: “Cosa succede?” “Nulla! Stendetevi li, svelti!” Christian sorveglia attentamente la strada alle nostre spalle. Gli dico: “Vai pure!” Riesco a raggiungere il mio sedile e scoppio a piangere, con la testa reclinata sulla spalla di mio marito. Io, la tensione, di solito la scarico sempre così. “Be’, stavolta l’abbiamo scampata bella!” Verso le due di notte mi racconta, “ho notato un movimento vicino al ponticello: stava formandosi un drappello. Non riuscivo a distinguere bene quegli uomini, per cui tenevo gli occhi bene aperti. Poi, a un tratto, non ho più avuto dubbi: quelli venivano verso di noi coltelli alla mano. Il resto lo sai anche tu…” “Abbiamo fatto bene a lasciare la chiave inserita nel quadro.” “Si. Ma ti rendi conto, se Nanobus non fosse partito?” Mi sento tremare. Finalmente spunta il giorno. Tutto quanto assume un aspetto più tranquillizzante. I bambini, ormai svegli, già schiamazzano alle nostre spalle. Si vede che hanno dormito bene, loro! Dopo una sosta sul ciglio della strada per la prima colazione, ci addentriamo in una fitta foresta dove, come dice il nostro dépliant, “vivono l’orso e la lince”. D’istinto ci mettiamo a spiare il sottobosco, folto e ancora assai buio, attenti a ogni lieve fruscio o fuggevole ombra. Usciti dalla foresta, ritroviamo il paesaggio desolato della steppa. Grossi mulinelli di polvere color ocra corrono sul terreno a grande velocita, e il sole comincia a picchiare sodo. Ci rimane ancora parecchia strada da percorrere, prima di arrivare alla frontiera afghana.
Frontiera afghana, 12 ottobre Alcune costruzioni in terra battuta, a un solo piano. Tre civili, pigramente stesi per terra, si passano un narghilé; sembrano ben poco interessati ai documenti che esibisco. Uno dei tre alza una palpebra verso di me, mi indica una fila, interminabile e in pieno sole, di contadini col capo coperto dal turbante e carichi di grossi fagotti. Mi metto rispettosamente in fila, dietro a un vecchio barbuto che sta sgranando una specie di rosario. L’afa è insopportabile, davanti a quel muro di fango e di paglia che riverbera il calore. Invidio i pantaloni a sbuffo dei miei vicini, e le ampie camicie, che lasciano circolare tanto bene l’aria. Non un solo palmo d’ombra, lungo questa frontiera afghana, ma mosche, a miriadi, tormentose, orripilanti. Penso a Isabelle che, da stamani, non sta tanto bene. Mi secca doverla lasciare cosi a lungo dentro il camper, sotto questo gran sole. Interminabile attesa. Il sole picchia così forte che mi viene il mal di testa. Finalmente sta per giungere il mio turno. Ancora una sola persona e potrò mettermi all’ombra. All’interno della piccola costruzione, dietro a un tavolo traballante, troneggia un impiegato panciuto. Si è ficcato in bocca il beccuccio di una teiera e ora aspira grosse sorsate. “Tomorrow! Domani!” Domani!? Ma qui mi si prende per i fondelli! Qui si esagera! Torno di corsa su Nanobus: “Senti, Christian, vedi di arrangiarti tu! Io ci rinuncio”. Le dogane di solito spettano a me: forse perché normalmente si crede che una donna riesca ad ammansire più facilmente i doganieri. E difatti!…
“Come sta Isabelle?” Lui mi tende il pezzo di cartone con cui sventolava la piccola. Sta sonnecchiando nel lettino aggiuntivo, pallida e madida di sudore. “Non preoccuparti, vedrai che le passa. Bene, allora io vado.” Isabelle cerca di sollevarsi, ma le gira la testa. Le do da bere un mezzo bicchiere d’acqua. Purtroppo, pero, subito dopo é scossa da tremendi conati di vomito. Comincio a preoccuparmi seriamente: non trattiene nulla. E se non le passasse?… Cerco di impedirmi di pensare ai rischi di una disidratazione, a cosi grande distanza da ogni possibile soccorso. Occorrerebbe battersela al più presto da questa maledetta dogana, perché il camper è diventato un vero e proprio forno! Quando finalmente Christian ritorna, puntiamo su Herat correndo a rotta di collo; con i finestrini aperti, Nanobus ci regala un venticello deliziosamente rinfrescante. Isabelle si è assopita.
Herat, Afghanistan, 13 ottobre Herat, impressionante città! Giriamo per le stradine del bazar in mezzo a una folla di uomini dalle vesti ampie e di donne velate dalla testa ai piedi, e sgraniamo tanto d’occhi. Siamo impegnati nell’operazione approvvigionamenti: negli armadietti non rimane più nulla. Già mi sono rifornita di tè, zucchero e riso. Isabelle ha ritrovato il colorito normale e ci trascina quasi correndo in tutte le bottegucce della piazza, impaziente di spendere i quindici afghani – così si chiama la moneta locale – ricevuti in premio per aver superato la malattia. Non sa cosa scegliere fra una teiera di zinco, un paio di ciabatte confezionate con un vecchio copertone e un vassoietto di spezie assortite. Adesso si ferma incantata davanti al treppiede, sormontato da una grossa scatola di legno, di un artista-fotografo, piazzato nel bel mezzo del marciapiede. “Quanto costa una foto? Quanto costa?” Dieci afghani! Perfetto. Felice come una Pasqua, va a sistemarsi sopra una vecchia cassa, davanti a un fondale da mille e una notte disteso sul muro, mentre l’artista scompare sotto un ampio panno nero e prende ad armeggiare con la scatola. In poco tempo quel movimento attira una folla di ragazzini curiosi ed eccitati. Il fotografo riappare con un’aria soddisfatta e si dispone accanto alla sua scatola. Tutti rimangono col fiato sospeso. Con un gesto ampio e solenne, sfila, dal davanti dell’apparecchio, un grosso tappo di sughero che funge da otturatore. Mi vengono i crampi per Isabelle, che rimane ferma, immobile come una statua. Clic! Ecco tornato il tappo al suo posto. Segue un vero e proprio numero da illusionista: infilate le braccia dentro un paio di manicotti neri, l’artista fotografo maneggia misteriosamente la scatola magica. Ecco fatto! Esibisce, con orgoglio, una fotografia sgocciolante. Eric lancia un urlo: “Ma che, questa è forse Isabelle?” È proprio lei, ma in negativo. Adesso bisogna solo ricominciare tutto da capo fotografando la copia. Il risultato, comunque, ci lascia ammirati. Con i nostri apparecchi ultraperfezionati, e gli scatti al millesimo di secondo, non sappiamo combinare granché di meglio. Imbaldanzito dal successo riscosso, ecco l’artista presentarsi a noi munito di tavolozza e proporci la Versione a colori!…
Ma il tempo passa e ancora dobbiamo comprare il necessario per la cena. Capitiamo per l’appunto davanti a un forno. Ci preparano delle belle focacce sottili al momento, ma, quando le sfornano e le confezionano, chi ce le porge non tiene in gran conto l’igiene: purtroppo, nel consegnarcele, si soffia energicamente il naso nella mano. Disgustata, l’intera famiglia ha un sussulto: si cercherà di tenere a mente qual è la parte finita nella stretta di quelle dita. Christian ora si produce in una serie di sonori muggiti da mammifero a beneficio di un negoziante che lo guarda assai perplesso: con quelle bizzarre imitazioni tenta, alla disperata, di fargli intendere che vorremmo del burro, ma riesce solo a provocare un assembramento di curiosi divertiti. La giornata volge al termine quando, trionfanti, torniamo al nostro Nanobus, lasciato nel cortile di un albergo. Ho l’occorrente per una buona frittata. Caroline, la golosa di casa, ha scovato, chissa come, un po’ di miele ancora attaccato al favo; dal canto suo, Isabelle, con i soldi avanzati, si è comprata anche alcuni braccialetti. Insomma, siamo tutti felici e contenti. “Marcio!… Questo, marcio!… Quest’altro, marcio!” Chini tutti e sei sulla bacinella, nella quale le uova, passate a uno a uno da Caroline, vengono sottoposte alla prova del galleggiàmento, vediamo con disperazione svanire la frittata. Con un colpo deciso Caroline manda l’ultimo fin sul fondo della bacinella. Ma niente: anche quello torna su, irresistibilmente. Marcio! Il piccolo Eric dice, con voce Strozzata: “Allora ci mangiamo i fiocchi di mais”. “Ah, no! Non se ne parla neppure, mio caro. Piuttosto, metto il riso a cuocere” intervengo io.
Un coro di proteste: “Ancora?! Ma mamma…” I fiocchi di mais e il latte in polvere vengono tenuti da parte per le grandi occasioni, oppure per le giornate nere, nel caso non ci rimanesse proprio nient’altro. In ogni caso, poi, anche volendo, il latte in polvere non possiamo prepararlo perché l’acqua potabile conservata nella tanica e finita. Ma ecco che Christian interviene a dire la sua: “No, è troppo tardi per il riso. Tanto vale servirci dell’acqua del serbatoio, per una volta”. “Sei sicuro che possiamo berla?” “Vi ho versato la varechina turca.” “Anch’io” assicura Bertrand. “E in abbondanza.” “Ecco, come vedete non rischiamo nulla.” “Sia pure. Ma poi non venite a lamentarvi se rimaniamo senza nulla in mezzo al deserto.” “Eh, No! Niente bizze, ragazzi! D’accordo? Non possiamo certo sprecare tutta questa roba!” Christian è paonazzo dalla rabbia. I bambini storcono il naso davanti alle tazze colme di fiocchi di mais. Assaggio un sorso dalla mia tazza: orrendo!… Non sa di latte, ma di varechina! Non faccio in tempo ad avvertire Christian, il quale si mette a urlare: “Adesso bevete tutto quanto e subito! E guai a chi finisce dopo di me!” Afferra la tazza, beve, si ferma a meta e mi guarda con una faccia strana. “Be’, certo che… Ma si può mandar giù!” Si è visto qualche luccicone, ma hanno vuotato tutti le tazze. Christian ha ritenuto di doverci anche dispensare un bel predicozzo sul tema: le nazioni sottosviluppate e gli europei sovralimentati, tipo noi. In verita mi è sfuggito il senso di quel discorso, ma il momento non si prestava certo alle contestazioni.
Christian Herat, 14 ottobre È cominciato alle tre di notte, quando dal letto a mansarda sono giunti i primi, deboli lamenti. All’inizio, vigliaccamente, ho fatto finta di dormire: d’altra parte, Bertrand chiamava “mamma”… Marie-France non ha fatto in tempo ad andare a prendere la bacinella. È poi stata la volta di Eric, un’ora dopo. Quando, all’alba, Isabelle si è unita agli altri, mi sono ricordato delle tazze di fiocchi di mais alla varechina. Ecco, vedrai che ho avvelenato l’intera famiglia. Le otto di mattina: si mette davvero male. Abbiamo passato le ultime ore ad asciugare, a lavare, a consolare. Marie-France ha ammucchiato i bambini da una parte, all’asciutto, nel poco spazio rimasto pulito, mentre su tutto il resto ha spruzzato l’intera scorta di acqua di Colonia. Io, che provo un po’ di rimorso, intanto passo dall’uno all’altro l’unico termometro di bordo. Le dieci e trenta: Marie-France si è rifugiata or ora, e di corsa, nell’angolo-bagno. Io, invece, mi verso un altro bicchierino di raki, un liquore turco, per tentare di liberarmi da un persistente senso di nausea. Confesso che, al suo interno, Nanobus appare in uno stato desolante: chi non si è raggomitolato in fondo al sacco a pelo, se ne sta mogio mogio in fila davanti al bagno. Le sedici e trenta: Marie-France rimugina neri pensieri, e io comincio a preoccuparmi seriamente: a furia di dare di stomaco i bambini vanno debilitandosi; Bertrand già una volta stava per perdere i sensi. Le ventuno: nessun miglioramento. Chissà, mi domando, se non converrebbe cercare di raggiungere Kabul costi quel che costi. Ma sarebbe prudente affrontare quelle lunghe tappe attraverso il deserto con i bambini in queste condizioni? Nel frattempo, però, bisogna impedire che il morale precipiti. Con tutte le forze che ancora mi restano, caccio un ululato: “Ohi, ohi, che maaaale! Stiamo tutti mooo – oo – olto maaaale!” Sulle prime ottengo soltanto timidi risolini soffocati; allora tento di nuovo e riparto con maggior slancio. Stavolta scoppiano tutti a ridere. Alla terza chiamata, al mio assolo si aggrega il coro frignante della mia povera famiglia. Più forte cantiamo, più stoniamo e più ci vien da ridere, nonostante le proteste di Caroline: “Ma basta! Non posso ridere, io! Ho lo stomaco in bocca!” E dopo un po’, quando si sente meglio, scrive una lettera alla nonna.
Cara Nonnina, spero che tu stia bene e che il tempo in Francia sia bello. Noi invece siamo stati un po’ male, per colpa dell’acqua del serbatoio dove papà e Bertrand hanno messo troppa varechina. Ma tu non devi preoccuparti perché ci siamo rimessi tutti. Abbiamo un amico afghano tanto carino e gentile. Fa parte di una famiglia composta da nove femmine e due maschi. Per adesso conosciamo solo Isaak, che ha tredici anni, ma domani dobbiamo andare a pranzo da loro. Nel frattempo, però, occorre trovare un altro posto per Nanobus perché qui ci fanno pagare trenta afghani al giorno (tre franchi) e poi perché i gabinetti sono ributtanti. La prossima volta, scrivici all’American Express, Kabul. Ti abbraccio forte forte, Caroline.
Herat, 19 ottobre Vengo svegliato dalla voce del muezzin che annuncia lo spuntar del nuovo giorno e la maggior gloria di Allah, in tutto il mondo dell’Islam. Mi scuoto e mi stiracchio per uscire dal sogno, per ritrovare la realtà. Mi sembra impossibile che l’incravattato funzionario, preciso, dall’aspetto manageriale quale da sempre mi conosco, sia adesso l’uomo qui presente, ammesso a vivere nella più assoluta libertà assieme a Marie-France e ai bambini, in un mondo così lontano, in una dimensione di totale appagamento. Mi infilo i jeans e silenziosamente scivolo fuori dal camper. La mattinata, appena iniziata, si offre limpida e leggera ai primi raggi del sole che l’indorano. Mi sento sommergere da un’ondata travolgente di felicita. Sulla piazza principale deve ancora aprire la botteguccia dove il calzolaio passerà la giornata a ricavare scarpe da vecchi copertoni; la via, però, già brulica di gente. Mi unisco alla folla sfiorando donne che paiono fantasmi e uomini alteri ed eleganti che circolano su grosse biciclette dal manubrio rialzato con la stessa signorilità con cui, un tempo, montavano folgoranti cavalcature. Nell’aria tiepida, l’odore della legna messa ad ardere nei focolari si mischia a mille altri aromi. Dal fondo della strada, la Grande Moschea manda infiniti bagliori azzurri. Il sole infiamma la città vecchia, lassù, e sembra che da un momento all’altro possa apparire Gengis Khan, alla testa delle sue orde terrificanti. Ecco il bazar, col suo dedalo di viuzze e i suoi muri così bassi da non nascondere mai il cielo. La vita, qui, palpita a fior di strada. Stamani voglio spogliarmi delle mie vesti di turista in vena di esotismo. Voglio indossare quelle del barbiere che si guadagna la giornata all’angolo della strada, di quel rigattiere li, sulla destra, che ora apre la sua minuscola bottega. Sono il venditore di frutta, seduto accanto al suo banco montato su ruote; sono il robusto mullah, il ministro del culto islamico, che fa recitare il Corano a quella cinquantina di ragazzini accovacciati intorno a lui, sono… sono felice. Ecco il grande parco dove l’ombra abbonda e dove, all’improvviso, la citta ammutolisce. Silenzio e solitudine. Mi fermo li, in quell’angolo appartato, e mi siedo sul ceppo di un eucalipto abbattuto per assaporare il momento… Herat, città ammaliatrice, città povera che però si permette il lusso di ornarsi di monumenti stupendi e di giardini raffinati.
Ma cosa vengono a cercare da queste parti, quei due? Si avvicinano due tizi: un colosso dall’aspetto equivoco e un militare. Tutto, poi, si svolge molto rapidamente: mi ritrovo un pugnale puntato alla pancia… e un dito piantato sul portafogli che mi crea un gonfiore sul petto, all’altezza della tasca della camicia. Si fanno capire molto chiaramente. “Dollars!” Eh, no! Marie-France e i bambini sperduti quaggiù, in capo al mondo; l’avventura finita in un disastro… Assurdo! Pesco dalla tasca una manciata di carte e la butto ai loro piedi. Poi, via di corsa! Quelli mi inseguono e sento i loro passi alle mie spalle; il cuore mi batte come un tamburo. Svelto, più svelto. Se almeno incontrassi qualcunol… Miracolo! In fondo al viale, ecco della gente. Mi rigiro: i lestofanti sono scomparsi! Gran sospiro di sollievo.
Herat, 20 ottobre I bambini hanno scelto sicuramente il più bello: calesse e cavallo sparisce letteralmente sotto i fiocchi rossi e i campanelli, mentre il cocchiere sfoggia un paio di stupendi mustacchi. Per la gioia dei nostri figli, abbiamo preso a nolo un gadi che ci porterà a casa di Isaak, quel loro amico dal quale pranzeremo. Il cavallo procede al piccolo trotto e, sul calesse, dondoliamo al ritmo dei campanelli, circondati da una marea di gente variopinta che affolla le strade di Herat. Mi sento in forma e allegra perché vedo che il mio gregge è tornato a sprizzare salute da tutti i pori; ma che paura m’avevano messo! Lancio, a tutti, un avvertimento: “Allora, mi raccomando: attenti a non bere acqua e a non mangiare verdure crude. Non vorremo ammalarci un’altra volta, spero!” Con la salute è tornato anche l’appetito, e l’odore degli spiedini cotti per strada ci fa venire l’acquolina in bocca. Ecco la casa, in fondo a una viuzza stretta fra muretti di terra battuta. Saltiamo giù dal nostro infiocchettato tassì. Isaak ci accoglie sulla soglia, e, superata la bassa porta d’ingresso, ci introduce subito in una stanza piccola e quadrata. Le pareti sono disadorne ma sul pavimento di terra battuta è steso un magnifico tappeto turcmeno; su quello, una volta tolte le scarpe, ci sediamo a gambe incrociate. Entrano nove giovinette sorridenti, timide, deliziose: le sorelle di Isaak. Ci scambiamo sorrisi amichevoli. Quante domande vorrei porre a queste nostre adorabili ospiti! Fortuna che Isaak, trattando con i turisti, ha imparato un po’ d’inglese. Occhi vivaci, un viso fine e bello, Isaak indossa vestiti ampi. Ha tredici anni e la direzione della casa è, manifestamente, affidata a lui. “E i tuoi genitori, Isaak.” Mio padre, poveretto, due anni fa si ammalò gravemente.
È dovuto andare a Kabul per farsi operare ai polmoni e da allora provvedo io a mia madre e alle mie sorelle.” Resto di stucco: due anni fa Isaak aveva undici anni, un’età nella quale ancora si gioca con le biglie, dalle nostre parti. “Cominciai vendendo due camicie al bazar” prosegue. “Ne comprai altre. Adesso possiedo due botteghe. Non mi lamento degli affari, però rimpiango la scuola.” Bruna, carina, ecco Fauzia, che potrebbe passare per una gitana. Porta un enorme vassoio colmo di riso zafferano e guarnito con uva passa e carote tagliate a del famoso qabili palao. Il cerchio si stringe attorno al vassoio fumante e il nostro amico Isaak ci invita a cercare i pezzettini di carne, nascosti sotto il riso affinché si conservino ben caldi. Per noi, e in via del tutto eccezionale, hanno messo i cucchiai in tavola; Christian però dichiara che gradiremmo mangiare alla loro maniera, ossia con le dita. Anch’io lo preferisco: trovo ben più emozionante condividere il cibo in quel modo. Quanto ai bambini, inutile parlarne! Sarà perché cominciamo a conoscerci meglio?… Comunque a poco a poco le lingue si sciolgono e quasi ci comprendiamo. Non appena finito il pasto, le nove sorelle si alzano e corrono via. “Vanno a lavorare al telaio” mi spiega Isaak. “Al pomeriggio tessono tappeti. La mattina frequentano la scuola.” Poco dopo andiamo a raggiungerle nel laboratorio. Un raggio di sole illumina l’ampio telaio sul quale va già dispiegandosi un’opera che è un capolavoro di finezza e di colori. Sedute accanto alle loro “istruttrici”, Isabelle e Caroline si impegnano seriamente e, per la concentrazione, non si accorgono di aver la lingua penzoloni. Fauzia mi aiuta a prendere posto al suo fianco su una piccola panca e anche a me viene spiegato il segreto di quei piccoli nodi. Le nostre piccole amiche si divertono nel vederci così impacciate e la loro allegria ci fa piacere. Pomeriggio meraviglioso, quello che trascorriamo con loro; nel salutarci dobbiamo promettere di tornare a trovarli, al ritorno. Dopodomani, infatti, affrontiamo il cosiddetto “deserto della morte”: oltre cinquecento chilometri di un deserto spazzato da terribili venti. Confesso che la prospettiva mi spaventa.
21 ottobre Abbiamo dedicato la giornata a riordinare Nanobus, a riempire il serbatoio dell’acqua, a mettere a posto le provviste. Adesso, qui nell’unica stazione di rifornimento di Herat, ci accingiamo a fare il pieno di benzina. Prima che Christian abbia il tempo di spegnere il motore, il camper già si ritrova il tubo nel serbatoio. Con ampi gesti delle mani, il militare di guardia accanto alla pompa azionata manualmente manifesta grande ammirazione per le decorazioni che ornano il nostro automezzo. “Eh no!” Christian balza a terra e prende di petto il soldato. “Trentotto litri?! In appena un secondo? Ma scherziamo? » Si arrabbia e con uno strattone toglie il becco della pompa dal serbatoio di Nanobus. “NO. A zero! Zero!” Superato un momento di imbarazzo, si degnano finalmente di dare il colpo di manovella grazie al quale il contatore torna allo zero.
Nel “deserto della morte” Afghanistan, 22 ottobre Sono quasi due ore che viaggiamo e il sole deve ancora spuntare. Christian è voluto partire presto, oggi, perché abbiamo di fronte parecchia strada prima dell’arrivo a Kandahar e non vogliamo arrischiarci, in questa regione, a bivaccare dove capita. Avevamo letto che da queste parti il vento può soffiare con tale impeto da abbattere un bue. Il cielo nero va schiarendosi leggermente all’orizzonte, e i bambini cominciano a svegliarsi, uno dopo l’altro. Fermiamo Nanobus per una brevissima sosta e, mentre i ragazzi si vestono, vado rapidamente nel retro per mettere un po’ d’ordine. “Guardate!” Nell’impressionante immensità che i primi raggi del sole cominciano appena a disvelare una carovana avanza avvolta in un alone di polvere bionda. Come spinti da una forza irresistibile, lasciamo il camper sul ciglio della pista e le andiamo incontro. I nomadi del deserto! Quante volte li abbiamo sognati… Già riesco a distinguere i primi uomini, avanguardia armata dall’incedere lento e maestoso, visi imperscrutabili e un po’ inquietanti. Mi sento nervosa: sono si stupendi, ma anche famosi per il carattere ombroso e la destrezza con la quale maneggiano il fucile. Uomo dal fisico imponente, folta e lunga barba nera, portamento nobile, fucile in spalla, il capo precede tutti gli altri.
Christian gli rivolge un lieve inchino portandosi la mano all’altezza del cuore: “Salam aleikum!” Attimi interminabili. Amico? Nemico? Un ampio sorriso si allarga a illuminare quel viso scavato ed energico: “Aleikum salam!” Significa “amico!” In breve tempo Christian si trova a scambiare con il capo pacche fraterne sulla schiena mentre tutt’intorno a noi sfila la carovana, stupenda, sollevando una nuvola color ocra in uno sfavillare di luci. Gli uomini conducono i loro cammelli carichi di tende, di tappeti, di attrezzi da cucina. Da sopra le pesanti some spuntano testoline protette da cuffie di feltro ricamate: i piccoli della carovana, serrati fra i pacchi e cullati dall’incedere ritmico delle bestie. Scambio qualche cenno di saluto con le donne che, a piedi scalzi, marciano ai lati della carovana. Ai miei occhi appaiono come vere principesse del deserto: per le vesti rosse e oro, per i monili che, tintinnando, scandiscono la loro lenta marcia. Chiudono la sfilata le greggi di ovini, condotte da molossi dalle orecchie mozzate; capre e pecore sollevano un tale polverone che, per vari minuti, non vediamo più nulla. Riprendiamo il viaggio. L’atmosfera ormai e torrida e il deserto, abbagliante. Non incontreremo altre carovane ma, di quando in quando, larghi spiazzi anneriti, la dove i nomadi hanno sostato e innalzato le tende. Mi fermerei anch’io volentieri, ma so che Nanobus si trasformerebbe in breve in un forno soffocante. Mentre ci preparano gli immancabili nan, cioé le tartine farcite di cipolle, Caroline e Bertrand versano lacrime copiose. Oggi però i bocconi vanno giù più difficilmente: abbiamo tutti la gola secca. “Il mare! Guardate, il mare!” Isabelle scalpita, sovreccitata: una lunga linea azzurra corre all’orizzonte e, ballando tremula sul suolo, l’aria surriscaldata accentua l’illusione. In verita, c’é di che rimanere confusi. Lo stesso Bertrand esita un attimo prima di dire, con un risolino di scherno: “Povera illusa! Il mare! E magari vedi pure i pedalò?” Caroline prende le difese della sorella: “Però bisogna ammettere che è un miraggio veramente fenomenale!” Sosta per le necessità corporali.
“Occhio agli scorpioni! Non smuovete le pietre!” I bambini avevano bisogno di sgranchirsi le gambe: mentre preparo Nanobus per la siesta, si mettono a correre come cagnolini lasciati liberi dalla mamma in un parco. Dinanzi a noi il sole bassissimo sembra incendiare l’immensità del deserto. Laggiù un autocarro è fermo sul ciglio della pista; tutti gli occupanti ne sono scesi per riunirsi al sommo di una duna e, lì, inginocchiarsi, l’uno accanto all’altro, in un controluce che colora i turbanti e che rende ancor più solenne la scena: è la preghiera della sera. In questo luogo nulla viene a distogliere il pensiero dall’infinito del cielo e si prova la sensazione, non comune, di una presenza di Dio. L’arrivo a Kandahar avviene sul tardi. Dovremmo trovare al più presto un posto dove pernottare. Gruppi di uomini si attardano a parlare attorno alle lampade a petrolio delle botteghe. Poco dopo troviamo, per una modica spesa, una sistemazione all’interno di un cortile. Il tempo di preparare il camper per la notte e, come inebriati, crolliamo sui letti, vinti dal sonno.
Sulla strada per Kabul, 23 ottobre Non me ne spiego la ragione, ma sento una minaccia incombere su di noi. Improvvisamente il cielo si e oscurato, screziato da venature rossastre che gli danno un aspetto terrificante. Generati dalla terra, mulinelli di polvere che paiono fantasmi corrono all’impazzata su questa immensa steppa dove noi, lo sento, siamo soli e abbandonati. All’improvviso, da sinistra, s’erge a nascondere l’orizzonte un enorme sipario nero che pare pronto ad abbattersi su di noi. Ho paura, ma taccio, per non impressionare i bambini che, alle nostre spalle, giocano e ridono. Adesso la massa nera ci incalza, vicinissima, Christian ha pigiato a fondo l’acceleratore. “Attento!” ho urlato in mezzo al fracasso. Un urto potentissimo contro la fiancata, uno schianto, come se Nanobus dovesse smembrarsi, e poi, una sbandata terribile. Christian ha bloccato di colpo: la massa compatta della sabbia investe rabbiosamente il camper, la sentiamo crepitare contro la carrozzeria, viene a insinuarsi a1l’interno da mille fessure, ci soffoca, ci accieca. Dobbiamo proteggerci gli occhi con le mani e, a ogni rinnovato assalto, tremo, perché con terrore penso alla raffica piu violenta che ci farà capovolgere o strapperà l’abitacolo dal telaio. Urlando, Christian ordina ai bambini di serrare la finestra e di rifugiarsi tutti lungo la fiancata di destra. Dunque, anche lui teme che Nanobus finisca per rovesciarsi? Per quanto tempo siamo rimasti così, impotenti, sballottati dalle raffiche spaventose, persi nella tempesta? Poi, per un attimo, il vento ha aperto una schiarita nella cortina di sabbia consentendoci di vedere un tratto di strada. Christian ha subito rimesso in moto. “Proviamo a proseguire. Dobbiamo assolutamente arrivare a Kabul prima di sera, e ci rimangono più di duecento chilometri!”
Kabul 24 ottobre È Mattino inoltrato quando Nanobus comincia ad aprire un occhio. Il sole inonda di luce il “cortile-giardino” del Gulzar Hotel che, ieri, ci ha accolti per la notte. Qui regna la più assoluta tranquillità: l’aria e frizzante, tersa e leggera, anche perché Kabul si trova a quasi mille e ottocento metri di altezza. Nell’azzurro del cielo due macchie, una rossa, l’altra blu, che sembrano farfalle gigantesche, danzano sullo sfondo della volta turchina: aquiloni. Ecco, questa è la felicità: ammirare in santa pace le evoluzioni di due aquiloni. “Andiamo, coraggio, tutti in piedi, voialtri. E, mi raccomando, portate fuori i sacchi a pelo!” Grandi pulizie, stamani!… In un battibaleno Nanobus viene trasformato in uno stenditoio: grata anteriore, finestre, specchietto retrovisore, tutto serve per mettere ad asciugare i panni. Christian sta già tornando, carico di focacce bollenti. Il tavolo viene portato fuori in un lampo. Mentre Caroline prepara l’acqua sbriciolandovi dentro con cura le pasticche disinfettanti e i più piccoli litigano perché nessuno dei due vuole apparecchiare, la fabbrica delle tartine entra in attività: Christian le taglia, io le abbrustolisco leggermente sul coperchio rovesciato del tegame grosso, trasformato in tostapane. Piazzato strategicamente all’estremità della catena di montaggio, Bertrand le spalma di margarina turca e miele di Herat. Lo “spuntino” assume ritmi pantagruelici. Con tutti quei pasti improvvisati, rimediati, negli ultimi tempi avevamo certamente accumulato un bell’arretrato. Quando vediamo quel che è avanzato della pur abbondante provvista di pane, scoppiamo tutti a ridere. Kabul mi lascia incantata fin dal primo incontro. Un grosso borgo abbarbicato fra i monti, dove la vita scorre placida e dove le case, basse, non nascondono mai il cielo. Per le strade si incontrano meno automobili che pecore, capre e oche. Ed ecco l’insegna dell’agenzia dell’American Express. Potrà sembrare strano ma, lontani da casa, la posta diventa importantissima. Oltretutto, anche se non lo ammettiamo apertamente, attendiamo con ansia il responso circa quel prestito che ci consentirà, oppure no, di proseguire il viaggio. Torno in strada poco dopo, stringendo a me il nostro tesoro. Ci chiudiamo dentro il camper e comincio la lettura. Apro, per prime, le missive più vecchie. Nonnina è stata male ma, con la sua sesta lettera, ci giunge anche la notizia della guarigione… Per oltre un’ora restiamo lì, a cercare di vivere con l’immaginazione gli eventi di laggiù, di quei luoghi così remoti.
Christian, nel suo angolino, rilegge per la quinta volta la lettera-miracolo annunciante la concessione del prestito! “Vi porto al ristorante!” annuncia esultando. “Lo sapevo, io, che non ti saresti perso l’occasione!” Ma siccome da parecchio tempo ormai siamo tutti a stecchetto, i bambini intervengono con gran decisione a favore del padre. “Va bene, sia pure, si va al ristorante ma solo per questa volta!” ammonisco. “Ricordate, comunque, che il denaro ancora non basta per arrivare fino in fondo!” Dopo un corroborante qabili palao, il morale della truppa sale alle stelle; tenendoci a braccetto prendiamo la strada del bazar. Il ponte scavalca il fiume Kabul, in questa stagione assai smagrito, tanto da sperdersi nel suo vasto letto fangoso; gruppi di donne lavano i panni e intanto si chiamano, allegramente, a gran voce. Giunti sull’altra sponda, ci ritroviarno indietro di secoli, nel Medio Evo. Una fitta trama di stradine rumorose dove intensi si svolgono i commerci e dove mille diversi odori si accavallano e si confondono: spezie, profumi ma anche tanfo di fogna. Dall’occhiata ammiccante che mi lancia, capisco che Christian è felice. Dobbiamo tapparci le orecchie per proteggerle dal fragore dei martelli che, abbattendosi a mitraglia su vecchie lamiere, le trasformano prodigiosamente in utensili nuovi di zecca. D’un tratto sbuchiamo nella zona dei tessuti. Fantasmi avvolti nel tradizionale chadri, il lungo velo pieghettato che copre interamente le donne, compresa la testa, si sfiorano in silenzio fermandosi per palpare le stoffe setose appese, a centinaia, davanti alle botteghe. In questo tripudio di colori si notano appena, in fondo ai minuscoli negozi, venerandi barbuti seduti a gambe incrociate davanti ad antiche macchine per cucire. “Ma ti rendi conto” mi dice Christian, “se il prestito non fosse arrivato?” Se non fosse arrivato? Avremmo resistito ancora un paio di mesi al massimo, e poi?…
Kabul, 6 novembre Brian e Lesley, gli inglesi! Pare impossibile! Ankara già ci salta in braccio, scodinzolando. Stavolta resto sbalordita. Annunciata e accompagnata da un rumore di pentole, la vecchia auto viola è entrata nel cortile del Gulzar Hotel. Ma fin dove vorranno arrivare, quei due?… Ci corriamo incontro, ci abbracciamo. Dev’essere stato sfibrante, il loro viaggio: dall’aspetto, sembrano distrutti. Con la consueta flemma, Brian comincia a raccontarci le sue avventure e, come sempre, ci ride sopra. Sulla strada per Herat, hanno perso una ruota; un’altra volta, e stavano anche male, si sono visti costretti a dormire nel deserto e durante la notte un tizio ha cercato di derubarli. Ankara, poi, ha continuato ad annaffiarli abbondantemente. A ogni tappa, Lesley voleva rinunciare, abbandonare, ma Brian riusciva a convincerla ad andare sempre piu avanti. Pensare che erano partiti per girare la Francia e bastal… Mi e simpatico, questo Brian: un vero bambinone, contentissimo della grossa sciocchezza che sta facendo. “Tempo qualche giorno, e ci spingiamo fino in Pakistan” dice scoppiando a ridere. I giorni trascorrono felici. Abbiamo deciso di sostare a Kabul per almeno un mese. Ne approfitteremo per aggiornare il nostro diario di bordo, che è l’unico esercizio scritto per i bambini. Adesso conosciamo bene la proprietaria del nostro Gulzar Hotel, una donna alquanto originale.
Tedesca, maritata a un afghano e poi rimasta vedova, estremamente energica nonostante i suoi circa sessant’anni, è una vera nonna d’assalto che comanda a bacchetta nel suo albergo. I bambini, che l’hanno conquistata, la chiamano “Tata Martha”. Dal giorno che ci ha sentiti cantare, Tata Martha si è autoproclamata nostro impresario. Ci fa una pubblicità favolosa telefonando a destra e a manca: “Ho qui da me una deliziosa famigliola che… Certo, venga! Venga con gli amici!” Nel suo piccolo ristorante non rimane mai un posto vuoto. Noi ceniamo gratis mentre Tata Martha “incassa coperti” in più. Insomma, gli affari vanno a gonfie vele per noi, e in città ci stiamo facendo un nome. La prossima settimana daremo un recital, offerto dalla Francia, al liceo di Kabul. Inoltre abbiamo un nuovo amico: Shahwali, un giovane di ventitrè anni dal viso allungato, con un bel naso dritto e capelli neri, come nere sono le folte sopracciglia. Quasi ogni giorno viene a trovarci, a bordo del nostro camper, per scambiare quattro chiacchiere. I bambini, che lo adorano, lo attendono verso sera, impazienti, per quegli epici duelli di aquiloni che rappresentano il passatempo preferito degli afghani. Ci ritroviamo allora tutti quanti a tirare fili, col naso all’insù, mentre le risate cariche di bontà di Shahwali si confondono con quelle, gioiose, dei nostri figli. Come mai tanta felicità? Stretti in sei in un ambiente di sei metri quadrati, avendo a disposizione un bugigattolo per lavarsi, un sacco a pelo steso su di un tavolaccio per dormire e, per sfamarci, pane inzuppato in una minestra di verdure… Eppure, non siamo mai stati tanto felici. Che sia per l’aver ritrovato il tempo da dedicare alle cose essenziali: un momento di vita familiare, il sorgere del sole, una passeggiata senza altro scopo che quello di sentirci vivere?
Isabelle
Kabul, 16 novembre Mamma prepara i panini, l’acqua da bere, i maglioni, la cinepresa, la macchina fotografica e il registratore perché andiamo a vedere il bouzkashi, il gioco nazionale afghano, che di solito si svolge nella steppa. Siccome non vogliamo lasciare solo Nanobus, all’aperto, saliamo su di un vecchio tassì e andiamo a raggiungere la folla. Appena trovato posto, vediamo arrivare i cavalieri con i loro copricapo di pelliccia e, nello stesso tempo, quelli incaricati di portare la carcassa della capra, oggetto della disputa, la sistemano al centro della zona dove avrà luogo il torneo. Le hanno tagliato la testa e il corpo è stato riempito di sabbia, cosi pesa di più. Il gioco ha inizio. Quante botte, per quella capra. I cavalli si saltano addosso e si mordono. I capi urlano, ma siccome urlano in afghano, non capisco nulla; però vedo che danno un sacco di frustate agli altri. C’è chi sanguina e chi cade assieme al cavallo. Papà si arrabbia, perché quelli cadono proprio mentre lui sta cambiando la pellicola. In certi momenti sollevano un tale polverone che neppure riescono più a vedere la capra. Poveretta! Fortuna che è morta perché la tirano e se la contendono, chi da una parte e chi dall’altra, afferrandola per le zampe. Come se non bastasse, poi, ancora urlano e ancora fanno quelle pericolose acrobazie sui cavalli. Chi cade viene schiacciato da tutti gli altri cavalieri. Ecco che uno riesce a fuggire trascinandosi dietro la capra. Gli avversari lo inseguono ma non riescono a fermarlo. Eccolo girare attorno a un palo ed ecco gli spettatori mettersi a gridare: “Così! Bravo! Ha vinto!” Ma tutto questo lo gridano in afghano.
Bertrand
Kabul, 24 novembre Stamani Eric ne ha combinate parecchie delle sue. Prima di tutto papà lo manda a rifarsi la doccia ma lui deve aver preso un ombrello per ripararsi perché quando torna ha ancora tutti i capelli asciutti. Ma neppure la saponetta è bagnata. Poi, mentre finiamo di sistemare tutto per bene e appoggiamo il vassoio della colazione in equilibrio fra due ghiacciaie, Eric… patapum! inciampa rincorrendo Isabelle. Cade tutto per terra, alla rinfusa: il miele, il latte in polvere, lo zucchero, l’acqua bollente e i nan che la mamma ha appena abbrustolito.
A quel punto, papà scoppia a ridere e, calmo e tranquillo, rovescia su quel macello sparso in terra anche la tazza di tè che teneva in mano. Per poco i miei genitori non si azzuffano, però, fortunatamente, arriva Brian a salutarci e allora mamma e papà fanno quelli che la prendono sul ridere e diventano carini e gentili. Brian e Lesley, infatti, partono per il Pakistan. Forse ci rivedremo in India! Poco dopo, il nostro amico Shahwali viene a raggiungerci per portarci in gita. Mamma rimane con Isabelle, che si sente un po’ stanca. Ci ammucchiamo tutti quanti in un vecchio tassì, buffo, mezzo sfondato e che fa il solito rumore di pentole. Per salire sui monti prendiamo una strada così ripida che ci vuole la rincorsa. L’auto non ce la fa proprio ad andare avanti, anzi, a un certo punto si ferma addirittura e noi ci spaventiamo: e se dovesse scivolare all’indietro e precipitare nel vuoto? Mentre il conducente cerca di ingranare la marcia, papà e Shahwali scendono in tutta fretta per puntellare la macchina, poi tornano di corsa e risalgono a bordo. Quando vediamo i tornanti farsi più stretti, e la salita così ripida, papà dice a Shahwali che possiamo anche proseguire a piedi, in modo da poter ammirare meglio il panorama. In cima troviamo uno slargo abbastanza piatto dal quale si vede tutta Kabul, le sue case di terra battuta e i cortili piccini piccini. Shahwali ci indica l’albergo Gulzar, il fiume Kabul, la fortezza e anche il cannone che, durante il periodo del ramadàn, quando si osserva il digiuno, ogni sera spara all’ora in cui si può cominciare a rnangiare. Quando ridiscendiamo, corriamo ancora più forte. Sulle prime ci divertiamo, ma poi vediamo che nelle curve il tassì accelera e le ruote sfiorano il ciglio della strada. Papa e Shahwali si arrabbiano. Il conducente risponde in afghano, Shahwali traduce: i freni sono quasi interamente consumati! Veniamo giù a folle velocità. Al termine della discesa Shahwali e il conducente affermano che solo per grazia di Allah non siamo finiti fuori strada e che quel tassì andava bene per la città ma non per la montagna. Quando lo abbiamo detto alla mamma, lei ha ringraziato il Cielo di non essere venuta con noi.
Marie-France
Kabul, 28 novembre All’ingresso del cortile-giardino dell’albergo ci aspetta qualcuno: un bambino. Si regge in equilibrio su due stampelle, ha un bel faccino e uno sguardo pieno di allegria. Ma, a vederlo in quello stato, considerando che alla sua età non c’e gioia più grande del poter correre liberi, ti si stringe il cuore!… Mi consegna un biglietto. I miei ragazzi vi hanno sentiti cantare al liceo, l’altro giorno, e vorrebbero avervi ospiti a cena, sabato. Ci fareste piacere. Serge de Beaurecueil Il bambino mi guarda con un’espressione interrogativa. “Ma si, certo! Grazie!” rispondo. Ho sentito parlare di questo religioso, un domenicano, che innamoratosi a prima vista dell’Afghanistan, vi é rimasto dedicandosi all’insegnamento. Ma ancora di più mi hanno parlato della sua casa, sempre aperta ai bambini abbandonati, o comunque in difficoltà. La prospettiva di conoscerlo ci fa molto piacere.
Kabul, 30 novembre Stretta fra i minuscoli laboratori di due sarti, una porticina immette nella casa del Padar (Padre) Serge de Beaurecueil. Sulla soglia, a darci il benvenuto, troviamo una dozzina di bambini storpi. Ma, se i corpi sono lesi, i visi invece sono aperti al sorriso e gli occhi brillano. Richiamato dalla confusione, il religioso viene a riceverci. Alto, nobile nel portamento, il viso adorno di una folta barba da savio, ci fa gli onori di casa seguito dalla sua truppa, una ventina di bambini e giovinetti di età compresa fra i sette e i quindici anni. Orfani, trovatelli, storpi: qui ognuno trova il calore di un focolare pur consevando la libertà di andare e venire a proprio piacimento. Così, alcuni rimangono per anni, altri solo per pochi giorni. “Dovete sapere che sarete loro ospiti. Io non c’entro nulla e neppure sono a conoscenza di quel che vi verrà presentato in tavola.” A cenni, i nostri piccoli amici ci invitano a prendere posto su un tappeto sedendo a gambe incrociate. “Il qabili palao, che buono!” esclama Isabelle. Ci stringiamo in cerchio attorno a vassoi carichi di riso dorato nel quale si celano pezzi di carne di montone. Le dita affondano in quelle soffici e calde collinette. Le parti migliori vengono sospinte verso di noi. Vorremmo ringraziare, contraccambiare ma, nonostante i sorrisi, la differenza di lingua rappresenta un ostacolo insormontabile. Allora, cantiamo e, dopo, i bambini di padre Serge cantano a loro volta. Fuori, quando ce ne andiamo, viene giù un nevischio gelido. Seguita da Caroline corro verso Nanobus per preparare i letti: siamo tutti stanchi e tremiamo dal freddo. “Oh, no! Il lucernario e rimasto aperto e la neve ha bagnato tutto!” Chiamo Christian in aiuto. “Guarda lassù, nella mansarda, è tutto zuppo i sacchi a pelo, i materassi, tutto!
Chi riuscirà a dormire, in queste condizioni?” Ma lui scoppia a ridere i bambini seguono il suo esempio e a me non resta che guardarli ridere come scemi. Io invece mi metterei a piangere. Cosa faremo? Frugo fra la roba alla ricerca di qualcosa di asciutto. “Datemi una mano piuttosto!” Ma più mi accaloro, più quelli ridono Se solo potessi sbattergli la porta in faccia e andarmene a dormire altrove! Quella notte l’abbiamo passata in bianco, seduti.
Tratto dal libro “In camper a Katmandu” appunti di viaggio dei Des Pallieres Edito da Selezione dal Reader’s Digest, condensato da “Quatre enfants et un rêve” éditions Albin Michel Paris.
Segue la 3° parte: (Con Nanobus a Katmandu 1977)
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