Ero rimasta incantata da un film di Mazzacurati,
“Notte italiana”, avevo visto il Delta dall’aereo,
mi sembrava che Venezia, che amo come
una seconda casa, fosse il punto di
coagulazione dei segni dell’uomo in un
grande territorio tutto di confine fra terra e acqua.
di Angela Cannizzaro
Stefania che vive a Venezia, voleva arrivarci dal Delta dove è nata. E abbiamo deciso di andare da Savarna, il suo paese, a Venezia con il mezzo più consueto, storico, della pianura: la bicicletta.
La partenza da Roma: i treni che hanno il servizio di trasporto biciclette, sono soltanto interregionali e diretti. Per arrivare nel pomeriggio del 6 aprile ad Alfonsine sono partita da Termini alle 6 del mattino e ho fatto tre cambi di treno.
Roma –Ancona; Ancona-Rimini; Rimini-Ravenna e Ravenna-Alfonsine. Il servizio biciclette si svolge su un vano a ridosso della cabina di guida dove c’è una rastrelliera a cui appendere la bici e legarla.
Ho trovato il vagone adatto solo sui primi due tratti, gli altri due, da Rimini ad Alfonsine, si è trattato di trasportare alquanto scomodamente la bici e tenerla sulla piattaforma del treno.
Arrivata ad Alfonsine alle 15.00.
PRIMO GIORNO: 7 aprile, da Savarna a Codigoro, km 50. A pochi km dalla partenza abbiamo incontrato il primo attraversamento di un fiume: il canale sul Reno su una chiatta che scorre lungo un cavo d’acciaio. Le bici pagano 1 euro. Arriviamo subito dopo sul lungo argine Agosta che corre lungo le valli di Comacchio, quella specie di grande lago tondo che si vede sulle carte geografiche.
Il paesaggio, il luogo è incredibile. Ma il tempo diventa sempre più brutto e noi andiamo dritte verso le nuvole nerissime. E capisco cosa intendeva Stefania a proposito del vento: si fa una terribile fatica.
C’è pochissimo traffico e al nostro passaggio si alzano gli aironi. Stefania mi chiarisce le definizioni: le valli sono le parti coperte dall’acqua e le terre bonificate sono quelle prosciugate dall’idrovore e poi private dalla salsedine con piante che si nutrono di sale e infine coltivate. Tutti i suoi nonni sono venuti dalle colline come coloni nelle terre della bonifica intorno a Ravenna negli anni ‘50.
A pochi km da Comacchio, in aperta campagna comincia a nevicare. è arrivata l’ondata anomala di freddo che le previsioni annunciavano fin da ieri. Ci rifugiamo nella prima fattoria, per fortuna siamo fuori dall’argine e in una zona piena di aziende agricole. Ci scaldiamo ma siamo sconcertate: solo tre ore dalla partenza e forse siamo costrette ad interrompere il viaggio. Ma veloce come è venuto, il brutto tempo va via: dopo un’oretta smette di nevicare. Ancora 4 km e arriviamo a Comacchio con un bellissimo sole.
Siamo solo a metà strada ma il fatto di aver superato la bufera di neve, ci da molta fiducia in noi stesse; andiamo avanti. Attraversiamo una zona di case della bonifica che hanno nomi di fiumi; c’è anche il casone Tevere e il nome mi sembra familiare e lontanissimo allo stesso tempo. Incontriamo una grande idrovora: possibile che in un tempo remoto come l’800 ci fosse la tecnologia per prosciugare le valli? Al cartello di Codigoro ci sentiamo felici come guerrieri vittoriosi dopo la battaglia.
La signora della pensione, vista la neve, pensava non arrivassimo più e invece… Posiamo le bici, ci cambiamo e andiamo a passeggio belle contente. Ceniamo in una trattoria senza pretese e continuiamo a ripeterci le eroiche gesta della nostra prima giornata. Arrivate in camera, altro che chiacchiere! Ci addormentiamo come sassi.
SECONDO GIORNO: 8 aprile, da Codigoro a Porto Tolle, 45 km. Partiamo alle 9.00 del mattino, il tempo è bello, l’aria freddina. Subito fuori dal paese incontriamo un tratto ciclabile.
Cioè incontriamo un pezzo di strada con una corsia protetta. Non è molto ma abbastanza confortante. Siamo un po’ in ansia, prima di Pomposa è previsto l’attraversamento a raso della statale Romea.
Ci aspetta una bella sorpresa: è stato realizzato un sottopassaggio, forse con i lavori del Giubileo, visto che le nostre carte non lo indicano. Arriviamo in tutta tranquillità all’abbazia. Pomposa è tutta in mattoni, a differenza delle abbazie Umbre, ha un colore caldo, morbido. Peccato non si possano effettuare riprese…
Dopo un paio di km entriamo nella riserva naturale della Mesola, è molto verde, traffico quasi assente. Attraversiamo un tratto di campagna, dirette a Goro e al ponte sul primo braccio del Pò. La campagna è bella ma noiosa e viene subito ribattezzata la campagna che palle: campi ben coltivati, trattori, aziende agricole, un allevamento di struzzi… struzzi? Goro, la patria di Milva, è un paesino anni ‘50, non ci ispira molto e andiamo al ponte.
A Gorino Ferrarese il cartello con le indicazioni sparisce, ci ritroviamo sull’argine con il ponte dietro di noi di un km buono.
Stefania ha una specie di calo di zuccheri anche se non è ancora mezzogiorno e abbiamo fatto colazione. Per fortuna ha conservato nel suo cestino la pizza di ieri. Io invece ho moltissima sete.
Attraversiamo il Pò di Goro su un ponte di barche. È una cosa straordinaria, le macchine camminano a passo d’uomo, le biciclette non pagano. Ci fermiamo a guardare il fiume. è come nella letteratura: grande, lento, maestoso, placido. Di nuovo un altro pezzo di campagna che palle allietata solo dagli aironi che al passaggio delle bici (e degli schiamazzi) si alzano in volo. Il secondo ponte di barche non ci dà la stessa emozione ma adesso è l’una e ci sono i ragazzi che tornano da scuola e questo ci mette molta allegria.
Siamo sull’isola della Donzella. Ci fermiamo al primo baretto sulla strada a divorare un numero imprecisato di panini con la mortadella, un gelato… è un posto bellissimo: la campagna, i pali della luce ancora di legno, i passerotti, i ragazzi della scuola… un idillio.
Il pezzo da qui a Porto Tolle finora è il più bello che abbiamo fatto, dopo l’argine Agosta. Peccato non si veda il fiume, nascosto dall’argine, ma si sente la sua presenza. In lontananza appare la ciminiera della centrale Enel di Polesine Camerini, la più grande d’Europa. Arriviamo a Porto Tolle poco dopo le 16.00. Sistemiamo le cose in albergo e tentiamo una gita alla centrale.
Ma è distante 18 km, siamo stanche e la strada è trafficatissima, forse per l’orario. Appena rischiamo un incidente con un camion, decidiamo che non è il caso, torniamo indietro a cose di ordinaria amministrazione e manutenzione: cercare un posto dove cenare, guardarci attorno… Conosciamo i gestori di una friggitoria: lei è stata sindaco di Porto Tolle, lui ci spiega che il battello per attraversare questo ramo del Pò non c’è più, adesso c’è il nuovo ponte, poco più avanti verso Polesine Camerini. Ecco spiegato il traffico.
Per loro è stata la fine di una schiavitù. Ci indirizzano al ristorante di un loro amico che si rivela molto elegante e, naturalmente caro. Andiamo fuori budget ma mangiamo la migliore frittura di calamari della mia vita. Torniamo allegrotte in albergo dopo lunghe libagioni (2 km a piedi).
TERZO GIORNO: 9 aprile, da Porto Tolle a Lido di Venezia, circa 80 km. Le previsioni del tempo non sono buone.
Mi sveglio con un filo d’ansia; dalla luce non riesco a capire se è ancora troppo presto o se il tempo è coperto.
Mi alzo in punta di piedi, vado a sbirciare dalla finestra del bagno… è un’alba meravigliosa, tersa!
Torno a letto aspettando la sveglia ma non vedo l’ora di partire. Decidiamo di partire subito e di rimandare la spesa per il pranzo al prossimo paesino. Prendiamo il ponte nuovo sul Pò: da un lato è prevista una corsia per le biciclette.
Adesso vediamo il fiume per la prima volta dall’alto di un ponte alto. Ieri la nostra era la quota delle barche. È veramente da mozzare il fiato.
Il Tevere non è poi così piccolo ma questo… è il grande fiume, almeno dell’Italia. La discesa dal ponte per me è un gioco liberatorio, Stefania è abituata ma io, povera cittadina… Sembra di volare. “Atterro” sulla provinciale verso Ca’ Venier e, dopo la prima curva a sinistra, è subito vento contrario.
E te pareva! Ca’ Venier è un piccolissimo gruppo di case intorno ad un chiesetta, il tutto a ridosso di un boschetto di alberi frangivento. Stefania dice che quando era piccola gli alberi erano sul ciglio di tutte le strade, poi sono stati tagliati. Alle macchine il vento non da disturbo… non è qui che potremo comprare da mangiare. Attraversiamo un piccolo ponte vecchio e stretto e siamo sulla strada verso Barchessa Ravagnan, la parte del Delta che va verso il mare. Non incontriamo nessuno per ore e pedaliamo in un territorio che si sfrangia sempre di più fra terra e acqua. Non ci sono case, solo un agriturismo chiuso.
Non parliamo neanche, mi è venuto come una sorta di silenzio reverenziale verso questo posto incredibile. Barchessa Ravagnan è un casone (chiuso) un tempo sicuramente azienda agricola, adesso forse sede di un qualche ente turistico. Intorno c’è un’area attrezzata per pik-nik, cartelli con la mappa de Delta e ovviamente nessuno. Saliamo sull’argine e vediamo che tutto intorno è acqua solcata da sottili argini, alcuni in costruzione. Pedaliamo come sui fili di un merletto. A destra le valli del Delta, a sinistra, da qualche parte, l’Adriatico.
Poco a poco appaiono segni di presenze più frequenti: recinzioni di piccole case, un piccolo approdo di barchette da pesca, una idrovora che aspira, soffia, sputa. Nuvole di zanzarini che per fortuna non pungono. L’aria si è fatta più salamastra e dopo un poco arriviamo a Porto Levante. Sono solo le 11.00 ma ci sembra sia passato moltissimo tempo; deve essere stata l’intensità del paesaggio così strano e solitario.
Ci sembra impossibile che da qui, porto turistico decantato, con Albarella, consorzio turistico famoso, sull’altra riva, non ci sia modo alcuno di traghettare. Stanno costruendo il pontile, a Maggio ci sarà il traghetto… Ma troviamo un anziano signore che ci traghetta con il suo barcone.
Evviva! Questo ci risparmia molta strada. Paghiamo 10 euro a testa e scendiamo felici. Consultiamo subito le carte: è solo mezzogiorno, possiamo tentare di fare tutta una tirata fino a Venezia, anche perché le previsioni danno pioggia sicura per domani. La strada da questo lato del fiume è nuova e frequentata bene: macchine importanti, furgoni di rifornimenti, tutto in funzione di Albarella, dove non si entra se non ospiti degli alberghi o invitati dai residenti. Dopo un paio di km prendiamo una strada di servizio agli argini che, su un itinerario che stiamo improvvisando, ci porta a nord, al ponte della Romea sull’Adige. Salutiamo il Pò: sta passando un cargo… Più che sfrangiato, questa parte del Delta sembra abbandonato: ci sono chiesette e case semisommerse, archi in rovina nell’acqua. Pedaliamo per ore, di buona lena, bisogna arrivar a Chioggia con la luce. Mi dispiace pensare che stasera il viaggio sarà finito ma sono anche molto stuzzicata dall’idea della sfida: un’unica tappa fino a Venezia. E poi se domani piove, sarebbe un disastro, un fallimento. Andiamo. La strada arginale sbuca su una provinciale che ci porta all’imbocco del ponte della Romea sull’Adige.
Una nuova bella sorpresa: tra il guard rail e il parapetto del ponte c’è uno spazio di circa un metro. Passiamo protette anche se lo spostamento d’aria dei camion è tale che io non ce la faccio a pedalare e umilmente spingo. Giù dal ponte non è più il Delta del Pò. Campagna e paesini, rispetto alle terre del Delta mi sembrano trafficati come piazza Venezia. A S. Anna dobbiamo attraversare a raso la Romea per andare sulla provinciale che ci porta al vecchio ponte sul Brenta e da lì siamo a Sottomarina e poi Chioggia. Altra bellissima sorpresa: c’è un semaforo! La terribile Romea è fatta, ci lasciamo la paura alle spalle, c’è il sole, la strada corre lungo un canale che ha già l’aria di Venezia. È un tratto molto bello e sereno.
Abbiamo molta fame ma purtroppo tutti i piccoli centri commerciali sono chiusi, sono le tre del pomeriggio. Alla fine della strada brutta sorpresa: il ponte è chiuso, tocca attraversare di nuovo a raso la Romea e stavolta senza semaforo. Ci aggreghiamo ad un anziano signore del posto che ci sembra più esperto, una svolta e siamo di nuovo all’imbocco del ponte nuovo con il solito spazietto protetto.
Passato il Brenta siamo praticamente a Chioggia. Ignoriamo i bar, a questo punto vogliamo mangiare sul mare, ci dirigiamo al battello per Venezia. Naturalmente sbagliamo strada proprio qui, dopo aver attraversato tutto il Delta senza mai un’incertezza.
Ma alla fine siamo al battello, facciamo il biglietto e mi precipito a fare razzia di tramezzini. Sono le 16.00 e il tempo peggiora visibilmente. Ma ci sentiamo ormai a casa. Errore clamoroso. Pellestrina è un’isola lunghissima, circa 11 km; cerchiamo di vedere il più possibile, Stefania è felice di farmi da guida: andiamo sui murazzi verso l’adriatico dove sono ancorate le petroliere al largo, passiamo dentro le case colorate (pessimo fondo stradale); al traghetto per Malamocco il tempo è decisamente freddo e fino al Lido sono altri 8 km. Non finiscono più. Facciamo la riva lungo la laguna: cerco segni di luoghi familiari, quelli fatti in bici quando vengo alla Mostra del Cinema. Passiamo dalla parte verso il mare e all’improvviso eccola che appare: la familiare torretta dell’Hotel Excelsior. Facciamo un’unica volata fino al palazzo del cinema; è chiuso, malinconico ma adesso mi sento anch’io a casa. Ancora un ultimo sforzo, la rotonda, viale S. Maria Elisabetta e… arriviamo dove abbiamo progettato: imbarco linea 1 – Lido piazzale Roma. Leghiamo le biciclette al palo e comincia a piovere. Sul vaporetto verso casa non ci sembra vero, ce l’abbiamo fatta. Ci diciamo: “grazie, senza di te non l’avrei mai fatto”, praticamente in coro, l’una all’altra. In tre giorni abbiamo fatto 170 km. Gli amici dicono che in realtà, dal punto di vista della fatica, date le biciclette, ne abbiamo fatti il doppio. Non siamo persone particolarmente allenate. Ma per niente al mondo avremmo fatto questo viaggio senza le nostre biciclette.
Ci siamo guardate: l’abbigliamento era appena adeguato; nel complesso avevamo l’aria di due signorine degli anni ‘50.
E questo ci piace. Siamo riuscite a fare un viaggio, spostarci da un luogo all’altro con un mezzo del tutto normale. E questo ci ha dato una grande fiducia in noi stesse. La mia bicicletta è stata data in consegna due giorni dopo ad uno spedizioniere che avevo prenotato da Roma prima di partire.
Io sono tornata la sera stessa con un comodo Eurostar e ho dormito tutto il tempo.
La bicicletta è arrivata a Roma dieci giorni dopo.
Per una serie di equivoci non mi è stata portata a domicilio come da contratto, sono dovuta andare a ritirarla. Appena fuori dallo scalo merci e per tutta la strada fino a casa ho trovato… IL VENTO!