Cinquant’anni dopo la conquista della vetta del
mitico K2 una spedizione italiana celebra l’impresa
di Lacedelli e Compagnoni, fra i partecipanti il
Senatore Fausto Giovanelli, noto nell’ambiente
dei camperisti per essere stato il primo firmatario
della legge per l’abolizione del “super-bollo”
per gli autocaravan nel 1996.
di Fausto Giovanelli
È il primo 8000 che vediamo… un mito dell’alpinismo e dell’avventura! Gloria di Reinhold Messner e tomba di suo fratello Gunther.
Nanga Parbat significa “montagna nuda”.
Lo chiamano anche “la montagna assassina”: scalarlo è difficilissimo. Ek-Bal, la nostra guida più giovane, si esprime un po’ in inglese, un po’ in spagnolo: “La gente qui sembra povera, ma non è così.
C’è legname, ci sono foreste su in alto, al di sopra della nostra vista e nelle valli laterali.
Lo tagliano e lo vendono…” Adesso mi spiego un manifesto dell’ONU che invitava alla protezione delle foreste. Noi non vediamo un albero che uno! Solo sassi, rocce, terra, sabbia.
Per chilometri e chilometri è un mondo di pietra, attraversato da un fiume possente e da una strada che è un’esplorazione.
Anche qui, nel deserto, ci sono tanti bambini. Ma come si possa vivere qui è un mistero.
Lo capiremo dopo. Ci sono delle “oasi” nel deserto di pietra.
Inoltre, ci sono foreste, da qui invisibili, oltre le creste delle prime montagne che danno sul fiume.
Le oasi sono giù nella valle e anche più in alto. Sono minuscole comunità di montagna.
Captano acqua, irrigano pezzi del deposito alluvionale o terrazzini sui versanti, creano piccole macchie verdi, isolate nel color terra di tutto il resto.
Hanno bambini. Vivono con un po’ di fieno, orti, alberi da frutta, povere case (“case” si fa per dire) e, magari, la teleferica per attraversare il fiume.
Una macchia di verde sulla costa di roccia è un’azienda agricola. Nessuno da noi si sognerebbe di chiamarla così.
C’è qualcosa di patetico e di eroico nel lavorare fazzoletti da trenta, cinquanta, cento metri quadrati appesi sulle pareti di un canyon. È agricoltura di pura sussistenza, ma è agricoltura importante: non fa vendere, ma fa vivere e sopravvivere.
Ci sono progetti internazionali in corso per il sostegno di questa comunità. Incontreremo segnalazioni di progetti dell’Unione Europea, di progetti della fondazione dell’Aga Khan, di progetti del governo pakistano.
Ma una vacca in Europa riceve annualmente più sussidi che una di queste comunità.
Il giorno dopo a Skardu, chiacchierando con Jan, il nostro sirdar, avrò una spiegazione folgorante: “Pakistan?
Lo chiamano il paese delle tre A: Allah, Army, America (Dio, esercito, Stati Uniti)”.
Jan si esprime in inglese e per il Pakistan usa la terza persona.
La sua patria, per lui, è la valle Hunza.
Mi fa riflettere più di una lezione di storia.
Capisco che l’esercito è praticamente tutto lo Stato che qui non c’è mai stato: strade, scuole, ospedali, classe dirigente, unità di comando dal Karakorum all’Oceano Indiano. Allah invece pare essere da sempre il Dio di questa gente…
Ma l’America cosa c’entra? C’entra, c’entra…
Gli Usa sono il principale alleato. E anche di più.
Da quando è nato, il Pakistan ha fondato sugli Usa la propria sicurezza. Innanzi tutto militare.
I centocinquanta milioni di mussulmani del Pakistan sono soprattutto poveri.
Credono in Allah! Bin Laden è un’altra cosa.
La mattina dopo è pace con Askole. Attraversiamo il paese inseguiti da bambine e bambini e finalmente troviamo la scuola primaria: ci sono sessanta tra bambine e bambini, ma soprattutto maschi.
Quando chiediamo e otteniamo di fare una foto della scolaresca, le bambine si nascondono dietro i maschi. A parte la scuola, l’ospedaletto e altre due costruzioni, il paese è un insieme di tuguri, di fango e sassi, piccoli, bassi, senza finestre, con tetti piatti su cui a volte c’è fieno ad essiccare.
Nelle case non c’è luce e l’acquedotto è costituito da un rigagnolo che scorre nella stradetta di terra lungo il paese.
Nello stesso rigagnolo si beve con le mani e si scarica dalle case attraverso piccole fosse.
I campi, invece, sono curatissimi. Impareremo dopo, dovendo accorciare la tappa, che i porters (portatori) mancano perché c’è molta richiesta, ma anche perché ci sono i lavori dell’agricoltura.
I portatori sono ragazzi e uomini di tutte le età.
Gli zaini sono basti di ferro su cui, con corde rudimentali, viene legato di tutto. La coperta per la notte fa da imbottitura sulla schiena.
Sono pagati anche in base al peso che portano.
Il giorno dopo, alla richiesta di un “vecchio” (almeno questo era l’aspetto, magari aveva la mia età) di portargli il carico al di là di un passaggio di secondo grado sul fiume, dirò di no.
Troppo pesante. Rischio di non farcela e di fare una pessima figura. Quando, dopo il passaggio, ho proposto lo scambio degli zaini, ha accettato felicissimo. L’ho portato per mezz’ora.
Di più non ce l’avrei fatta. Francamente non so come loro possano riuscirci.
Camminano più di noi, ma con soste più frequenti per scaricare il peso, appoggiando il carico sui massi e rialzi, senza toglierlo dalle spalle.
Anche perché rimetterlo e rialzarsi è uno sforzo ulteriore e visibilmente problematico.
Il gruppo di dipendenti Siemens a cui sono aggregato è ben affiatato. E anche allenato.
Non solo si conoscono tutti ma sono stati insieme all’Everest. Insomma, come trekkers hanno esperienza ed equipaggiamento migliori dei miei. Penso se ne rendano conto, e la cosa un po’ li responsabilizza, un po’ li intenerisce.
Non so cosa pensano quando le datate pedule che indosso, una dopo l’altra, si aprono per lo scollamento delle suole.
Mi impegno e riesco a tenerle attaccate alla scarpa facendo sapientemente girare sotto i lacci, come coi ramponi.
A me pare una soluzione ingegnosa, ma ormai la figuraccia è fatta.
Tutti – più o meno ridendo – si preoccupano. Ma così, tra la fatica, la polvere e gli inconvenienti, si accorciano le distanze e si stringe un legame.
Dopo qualche giorno Fabio, uno dei leader del gruppo, vedendomi in difficoltà con gli scarponi pesanti, mi presterà le sue pedule.
Comunque, tra bene e male, riesco a portarmi alla fine della tappa e nel bagaglio troverò le scarpe da ginnastica. Per ora bastano. Il sole è ancora alto quando ci fermiamo.
Siamo nel punto in cui, da una valle laterale, l’immenso ghiacciaio del Biafo (è lungo centoventi chilometri) sfocia nella valle del Braldu, che regolarmente ne erode la morena finale, larga un chilometro.
Qui c’è un’oasi dove vendono acqua e Pepsi. Ci accampiamo e verso sera ci sono almeno trenta tende e altrettanti bivacchi.
I portatori bivaccano all’aperto, dentro piccoli recinti di pietra quadrati, alti mezzo metro.
Lì, a gruppi, mangiano e dormono, a volte cantano, coperti con i panni che mettono tra il basto e la schiena. Quando piove si tirano sopra un cellofan.
C’è anche una troupe televisiva del Pakistan con una donna – è un medico, figlia del ministro dell’educazione – e i suoi ragazzi.
La notte è una cascata di stelle, con la luna che accende il bianco della neve sulle cime.
Da ogni parte. La giornata comincia piano, con la crema in faccia, il passo lento, mentre si attraversano gli sfasciumi costituiti dai depositi alluvionali, portati dai torrenti che precipitano dalle vette sovrastanti la valle del Braldu.
Dobbiamo arrivare a Payu, dove c’è un’oasi, in questo strano deserto attraversato da torrenti impetuosi gonfi di acqua come e più del Po, ma che da soli non creano un metro di verde.
Abbiamo lasciato ieri la vecchia carovaniera che risaliva la valle del Dumordo, per arrivare nel Sin-Kiang. Quella era la vecchia Via della Seta.
D’improvviso, di colpo, uscendo da uno dei cento avvallamenti, il K2. C’è un profilo di montagne bianche all’orizzonte, in fondo alla valle; e il profilo di una di queste è inconfondibile.
L’ho visto in cento cartoline. Lo riconosco. “È quello?”… Sì… No… Sì… Mah… Poi passa un portatore, capisce e pronuncia “Ke tu” (K2).
E sono foto su foto! Un’emozione! Non ce l’aspettavamo. Le relazioni dicevano che non si vede fino a Concordia. Invece no!
C’è una delle “cattedrali del Baltoro” che lo copre in parte. Si intuisce che, portandoci via via più sotto, magari non lo vedremo più per tre giorni. Allora stop subito, poi di nuovo stop alla prima posizione panoramica, su un rialzo.
Gli altri vanno avanti, ma li riprenderemo. Bisogna godersi il primo successo della nostra spedizione.
Al sole fa caldissimo e allora doccia all’aperto e bucato, mentre gli elicotteri fanno la spola, fermandosi più volte in fondo al greto.
Il K2 non si vede più. O meglio si intravede al tramonto, ancora illuminato dal sole, ma coperto quasi perfettamente dalla piramide scura di una delle cuspidi del Baltoro, più bassa, ma più vicina.
Come il sole durante un’eclissi: ciò che si vede è solo la luce sul contorno. La mattina dopo Prospero viene a salutarmi prima di partire. Noi siamo ancora fermi. C’è uno sciopero dei portatori. Non si chiama così ma è così. È una scena incredibile e indescrivibile.
Incrociano le braccia. Letteralmente. Stando in piedi oppure accovacciati, com’è il loro solito, a gruppi, raccolti sulle piazzole della tenda mensa. I bagagli sono a terra, in attesa di essere raccolti. Assistiamo, parlando solo tra di noi.
È uno sciopero selvaggio. O meglio sarebbe tale se avessero uno straccio di contratto. Ma non hanno contratto. Sono ingaggiati quotidianamente.
Prendono duecento rupie al giorno. Settemila lire. Tre euro. Più da mangiare. Si tratta sulle rupie e sul mangiare. La scena è drammatica e commovente.
Coi portatori conviviamo, separati ma inseparabili, da qualche giorno. A loro consegniamo la nostra roba imballata. Le tende, i viveri e tutto il resto.
Ce la ritroviamo all’arrivo. Con novemila rupie per tutti la “trattativa” si sblocca.
Nella salita, Jan, il sirdar, mi ha tirato con il suo passo davanti agli altri. Mi parla (in inglese) per un’ora e capisco “quasi” tutto.
Vorrebbe soldi dall’Italia, come aiuti, per lo sviluppo della sua valle, quella degli Hunza. Ci sono progetti della foundation dell’Aga Kahn per l’istruzione alle donne, l’irrigazione e l’ambiente.
Non so cosa dire. Gli do la mia carta con l’indirizzo e l’e-mail. Mi manderà i progetti e poi vedremo. Arriva finalmente, un po’ pallido, il ministro Alemanno.
Mi presento, mi saluta e viene con noi a prendere il tè di benvenuto nella tenda mensa del nostro gruppo. Parliamo un po’. Mi invita ad unirmi alla delegazione parlamentare per l’incontro con Musharraf.
Gli racconto delle richieste del nostro sirdar per il popolo degli Hunza. Alemanno mi sembra seriamente provato tuttavia ascolta e propone di valutare la cosa nell’ambito dei progetti da finanziare che l’Italia potrà discutere con la FAO. Sono molto soddisfatto. Ieri, ansimando sul Baltoro al passo di Jan, avevo fatto promesse vaghe. Oggi c’è un contatto diretto con la segreteria del ministro dell’agricoltura. Il K2, coperto, non si fa vedere. Però si sente; e, camminando lento e tranquillo, penso che è bello avvicinarsi al K2 come andare a prendere un caffè in piazza. Mi godo l’idea che si sta arrivando al campo base, la meta del nostro trekking. Passiamo a fianco del campo base del Broad Peak giungiamo finalmente, dopo un po’ di acrobazie per saltare un torrente, in fondo a un crepaccio. Siamo arrivati. Incontro subito Enrico, poi Michela. Abbracci… “Sono stato di parola”. Salgo duecento metri fino a “Casa Italia”, la grande tenda-mensa della spedizione. “C’è un caffè?” Sì, qui c’è.
Michela prende la moca. Intanto saltano fuori speck e pecorino. È un avvenimento. Non facciamo un pasto nostrano da quindici giorni. Speck e pecorino durano poco. E anche la cioccolata che non manca è presa d’assalto. Qui è “Casa Italia” davvero. Ridiscendo verso la tenda per sistemarmi per la notte. Intanto ho avuto un invito a cena con gli alpinisti della spedizione e anche di più: un materassino autogonfiabile (cambierà completamente la qualità del mio giaciglio, fino ad allora solo una stuoia su sassi e ghiaccio) e una giacca di piumino: calda, eccezionale! In effetti per star fermi la sera la mia North Face, made in China, non basta. A cena a “Casa Italia” siamo una ventina, tra di loro quattro dei cinque nuovi conquistatori del K2. Ho di fronte Mario Merelli. Parliamo di montagna e di sci di fondo, di cui anche Merelli è appassionato. Perciò valeva la pena ricordare l’anniversario di quella che è stata la principale impresa alpinistica degli italiani, come nazione (quelle di Messner, il re, sono cose a parte). Un minuto in tutto. Ascoltano, poi fanno domande e parliamo più a lungo su questo tono. Poi subito a letto. Siamo al K2. La notte è più fredda. Nevica, e sulla tenda, che per stasera condivido con Claudio, si forma un sottile strato di ghiaccio. La mattina sveglia presto si fa colazione nella mezza tenda comune rimasta. All’improvviso tutti fuori. Dalla montagna è scesa una valanga, circa cinquecento metri a monte, subito dopo il campo base. Il fumo attraversa tutto il ghiacciaio Goldwin Austen, arrivando fino alle pendici del Broad Peak. Per fortuna non abbiamo curiosato verso il campo base avanzato. Alcuni di noi scendono subito a Concordia. Con gli altri andiamo all’attacco della Magic Line, una via alla parete sud che parte subito sopra il campo base.
Poi indietro per andare al Memorial dedicato a Mario Puchoz (l’alpinista valdostano morto per un edema polmonare nella spedizione del ’54). Dopo quasi un’ora di camminata su e giù per corsi d’acqua e morene, fino a montare con un sentiero ripido sull’unghia del piede della montagna, troviamo una cosa diversa dal cippo che immaginavamo. Qui, sulle rocce che circondano un terrazzino esposto che guarda il ghiacciaio, non c’è il cippo, né la lapide che mi aspettavo. Non c’è un monumento a Puchoz. C’è una memoria che il vento fa tintinnare contro la roccia rendendola viva. Sono piatti metallici appesi ai chiodi, con incisi nomi, dediche e parole di amici per tanti alpinisti caduti. Nella semplicità della cosa non c’è retorica ma solo una grande intensità. Sono il silenzio e, per contrasto, il vento che fa tintinnare il metallo contro la roccia, i protagonisti e i compagni dei pensieri di chi si sofferma qui. E dopo il vento il silenzio. Scendiamo subito. Sono turbato. È un luogo importante, una capitale della montagna mondiale, come Chamonix, come Aspen, come Cortina, ma non se ne dà le arie. La globalizzazione non l’ha ancora omologata. È rimasta se stessa, viva, ma anche polverosa e povera, come questo continente indo-musulmano. Spesso ho creduto di viaggiare trovandomi sempre nello stesso luogo. Qui, nel Baltistan, Kashmir pakistano, sulle vecchie Vie della Seta, sento di avere viaggiato davvero.