(5° parte di: Con Nanobus a Katmandu 1977)
Ripenso alla giornata
folle in cui, con la
città in festa, ci siamo
tirati addosso, come
bambini, liquidi e
polverine colorate…
Contagiati quasi
senza accorgercene
dalla semplicità,
dalla spensieratezza,
dalla candida fiducia
e dall’allegria di questa
popolazione così
prossima alla “dimora
degli déi”, in questo
luogo abbiamo imparato una fantastica lezione sull’arte di rimanere fanciulli.
di Christian e Marie-France Des Palliéres
Patna
14 marzo PATNA, nello stato di Bihar: ancora quattro chilometri. Inchiodato al volante, mi sento la colonna vertebrale a pezzi e la gola impastata dalla polvere, che pare cemento; tiro avanti solo in virtù dei riflessi, ma non demordo pur sapendo che tutti anelano a una sosta. Marie-France ormai non impreca più e i bambini hanno smesso da tempo di dimenarsi e urlare, come loro solito. Dormono tutti, praticamente anch’io.
Dopo otto ore di viaggio lungo le strade indiane, Patna ci assesta il colpo di grazia. In questa città ci imbattiamo non in una folla, ma in una marea di gente: milioni di esseri umani che ci circondano e ci stringono.
Il camper ormai avanza a passo di lumaca. Mi manca l’aria.
Sono troppi: la respirano tutta loro, mi sento soffocare. Via, bisogna tirarsi via da qui, a ogni costo. Sporgo la testa dal finestrino, e domando: “Camp? Camp?”
Chiudo gli occhi, reclino il capo sulle mani giunte a mo’ di cuscino e, per farmi capire meglio, imito un dormiente che russa. Un braccio s’alza al di sopra della distesa di chiome nere e unte; “Dak Bungalow!”
Tre secoli per arrivarci. Sarà per via della stanchezza? Fatto sta che all’improvviso qui tutto ci sembra grigio e deprimente. Il Rajasthan e i suoi colori accesi sono un lontano ricordo.
Fermo Nanobus in un cortile sporco e lugubre. E dire che speravamo tanto di trovare un posticino calmo e tranquillo dove poter riposare! …Il direttore non ispira certo simpatia!
Come? Due rupie a notte per sostare in questo terreno abbandonato? Marie-France brontola: “Ma almeno c’e da lavarsi? “ Un locale angusto e squallido. Un rubinetto… Per questo extra, fanno due rupie in più.
15 marzo Mi affaccio al portellone del camper e vedo Marie-France, armata di spazzole e detersivi, che si avvia per andare a pulire il bagno, felice e contenta di aver trovato l’occorrente per lavarsi e mettere a mollo tutti noi. Fuori, il sole già riscalda.
“Ma… ma dico? Quelle scarpe mi appartengono! Questa poi! “Proprio lì, davanti ai miei occhi, un tizio sta allontanandosi, zoppicando leggermente ma bello calmo e tranquillo, con ai piedi le mie scarpe di corda che ieri sera avevo lasciato ad asciugare sul predellino.
Stupito, rimango a guardarlo come uno scemo, immobile. D’un tratto, quello perde la scarpa sinistra, poi lo vedo chinarsi e tentare di rimettersela.
Da sotto le maniche cenciose spuntano due moncherini. Allora lo raggiungo. “Aspetta, amico mio! Se non le allacci, non ti rimarranno mai ai piedi. “Lego le stringhe con un doppio nodo per parte.
“Ecco, vedrai che adesso cammini meglio. “Se ne è andato senza pronunciare una parola. I bambini cominciano a svegliarsi. Avrei cominciato a preparare la colazione, ma mi sono appena accorto che è sparito anche il fornelletto, lasciato per la notte sotto il camper.
Pure dal fronte del bagno giungono cattive nuove. Marie-France, rossa di rabbia, torna a passo di carica: “Senti, questi ci prendono in giro! Ho pulito tutto, che pareva uno specchio.
Esco un attimo, per prendere il sapone, e un tipo che gironzolava li vicino si chiude nel mio bagno, con tutta la mia roba! “Dopo trattative che durano un’ora, finalmente il direttore accetta di assegnarci un altro bagno.
Ma è interamente ricoperto di una schiuma verde e dobbiamo ripulirlo da cima a fondo.
Dopo di che, Marie-France e le bambine si chiudono dentro, per tornare fuori quasi subito.
Mi basta un’occhiata alla faccia di mia moglie per capire che sta per succedere un disastro: “Trattienimi o lo sbudello: e finita l’acqua!
“Andiamo a chiedere spiegazioni e apprendiamo cosi che l’erogazione è sospesa fino alle cinque del pomeriggio! I maschi, ben lieti di sottrarsi alla seccatura della doccia, si mettono a ridere. Quanto a me, forse avrei fatto meglio a scegliere un momento più favorevole per annunciare il furto del fornelletto…
Katmandu
Nepal 15 aprile KATMANDU! È trascorso quasi un mese dal giorno in cui siamo arrivati e già abbiamo mille ricordi. Ripenso alle lunghe passeggiate in sella alle vecchie biciclette nere, prese a nolo per girare la vallata in lungo e in largo; alla giornata folle in cui, con la città in festa, ci siamo tirati addosso, come bambini, liquidi e polverine colorate…
Contagiati quasi senza accorgercene dalla semplicità, dalla spensieratezza, dalla candida fiducia e dall’allegria di questa popolazione così prossima alla “dimora degli déi”, in questo luogo abbiamo imparato una fantastica lezione sull’arte di rimanere fanciulli.
Ben volentieri prolungheremmo la sosta, ma il caldo va ormai aumentando di giorno in giorno e ci toccherà rientrare in India al più presto, se non vogliamo ritrovarvi l’inferno.
Quando ci rimettiamo in viaggio, l’amico Tashi, un monaco, insiste nel voler invocare su di noi la benedizione degli dei. In silenzio ci porta nella lamasseria, il convento dei monaci buddisti, dietro il grosso Budda dalle lunghe orecchie che scendono fino alla vita, e ci precede in uno scantinato buio.
Avanzando a tentoni, come cospiratori, ci dirigiamo verso una sala ornata di colonne, rischiarata dai ceri e satura di fumi di incenso. Tashi ci lascia dietro una fila di pilastri.
“Rimanete qui e non fatevi vedere: la cerimonia sta per cominciare” ci sussurra all’orecchio prima di raggiungere gli altri. Avvolti nelle vesti granata, i lama siedono nella posizione del fiore di loto, addossati alle pareti.
Con voce solenne uno di loro da inizio a una litania alla quale tutti gli altri si uniscono in un’allegra confusione.
Poi, si mettono a suonare le conche, i gong, i piatti.
Un baccano terribile! Stupenda religione che trasforma uno sfogo salutare in una preghiera! I bambini, a questo punto, vorrebbero partecipare: anche a loro piacerebbe moltissimo suonare, e con quale fervore, gong e piatti. Torniamo di sopra quasi convertiti.
Quando usciamo dalla lamasseria, i bambini si lanciano in una gara per vedere chi riuscirà a far girare più a lungo il grosso “mulino da preghiera”: una sorta di cilindro metallico cavo che ruota su un’asse, e a ogni giro del quale il fedele recita una formula di preghiera. In tal modo i bambini fanno la felicità di un gruppetto di donne tibetane, che si mettono a orare a tutto spiano. Salutato Tashi, per l’ultima volta siamo andati a sederci sul muretto dal quale si domina l’intera vallata di Katmandu.
Gli dei vanno spegnendo a una a una le luci dei loro templi: tra poco si addormenteranno al riparo dell’ala protettrice dei grifoni di pietra e di quelle loro orripilanti smorfie.
La notte incombe, bisogna scendere a valle. Del resto, ecco le donne tibetane di prima: finite le orazioni, si avviano verso l’interminabile scalinata che discende fino ai piedi della collina. Ma scherzano e schiamazzano, come tante bambine; e poi, davanti agli sguardi sbalorditi dell’intera nostra famiglia, una di loro alza, quanto basta, la lunga veste accompagnata dal grembiule colorato, si piazza a cavalcioni del doppio corrimano e si lascia scivolare.
Le altre, ridendo, subito la imitano e, a cenni, ci invitano a seguire il loro esempio.
Succede così che anche tutti noi ci mettiamo a giocare allo scivolo, e ridiamo, ridiamo fino alle lacrime sotto lo sguardo smisurato del Budda che, sicuramente, se la ride anche lui.
Giunti a valle, ci avviamo verso Katmandu prendendo attraverso i campi. Il morale è alle stelle; abbiamo convinto Marie-France ad allargare i cordoni della borsa e a concederci, in occasione dell’“ultimo giorno”, una bella minestra nepalese.
Quando arriviamo all’altezza delle prime case, è ormai notte. La città profuma di cucina e di fuoco di legna. Un brivido di piacere ci corre lungo la schiena quando ci immergiamo nel tepore corroborante di un piccolo ristorante dal tetto basso, dove l’odore della minestra si mescola a quello dei ciocchi che scoppiettano nel focolare: ci sediamo, stretti gli uni agli altri, sui banchi rustici, poggiando i gomiti sul tavolo sghembo, in mezzo a robusti contadini nepalesi.
Sotto i nostri occhi fumano sei piattoni di una densa minestra. Solo dopo la terza porzione abbiamo ricominciato a parlare.
Si paga la prima, le altre le danno gratis. I bambini strizzano gli occhi e, ormai beati, si accarezzano le pance. “Avanti, presto: tutti a nanna” ordino. “Non dimenticate che domani si va su per i monti.”
SOFFIA un vento glaciale. Seduti all’aperto spalla contro spalla, il naso perso fra le stelle, aspettiamo il sorgere del sole sopra l’Himalaya. Laggiù in fondo si intravede un incerto chiarore.
Poco dopo, come per annunciare una grandiosa apparizione, enormi fasci di luce bianca trafiggono il cielo. E allora, tutt’intorno a noi, con un movimento scenico favoloso, il grande Regista ha incendiato una dopo l’altra le vette imponenti. Non sbagliano, i nepalesi: questa è davvero la dimora degli dei.
“Dobbiamo proprio conservare il ricordo di questo avvenimento” sussurra Marie-France, che avrà sì il naso rosso per il freddo, ma che non si lascerebbe mai sfuggire un momento storico.
“Chi di voi saprebbe descrivermi ciò che si vede?” “Be’, ecco… una vastità grandissima… e altissima.” “Si, e anche superba.” “Ah, ma bravi! Assistete a un indimenticabile sorgere del sole sopra l’Himalaya, per di più avendo di fronte l’Everest, e non sapete dire altro?
Cercate, almeno, di metterci un pizzico di poesia!” Silenzio. Il sole adesso illumina il fondovalle.
Ci siamo stretti gli uni agli altri, tremando nei sacchi a pelo, come se il paesaggio e il momento fossero troppo grandi per noi. E ci siamo scambiati, in silenzio, le mille sensa- zioni che non sapevamo esprimere. Domani, affronteremo la via del ritorno.
Marie-France
Tra Patna e Benares, India, 18 aprile Ritroviamo un’India prostrata dal sole e dalla luce. In un mese, il paesaggio è diventato irriconoscibile: riarso, screpolato.
Gli stagni ormai sono diventati pozze fangose nelle quali sguazzano i bufali; ma le donne vengono ancora ad attingervi l’acqua. Nanobus solleva una nuvola di polvere bianca e rovente e all’intemo si soffoca. Bisognerebbe andare più in fretta per poter respirare e avere un pò più di aria.
Ma, sulla strada davanti a noi, dormono tutti quanti: bufali e bovari, ciclisti, pedoni e portatori. Sul retro, i bambini, stremati, dormicchiano col capo riverso sul tavolo. Isabelle è rossa come un gambero.
Come se non bastasse, per via di un ponte fuori uso, siamo costretti a deviare lungo questa orrenda pista sventrata da buche enormi occultate dalla polvere.
Cosi succede che, proprio quando meno ce l’aspettiamo, veniamo sbalzati tutti e sei dai sedili e scagliati Verso il tetto per poi ricadere giù in un fracasso tremendo di ferraglia accompagnato da imprecazioni e dal rumore sinistro degli oggetti sbattuti negli armadietti.
Pensare che dobbiamo riattraversare di nuovo tutta l’India! Non dovevamo trattenerci così a lungo in Nepal!
Christian,
Sasaram 19 aprile NANOBUS SI GIRA e si rigira, brontola, sospira e impreca. L’una di notte e ancora nessuno ha chiuso occhio.
L’interno del camper sembra una pentola a pressione che sta per scoppiare. Quarantuno!? Questo benedetto termometro non vuole più scendere, neppure di notte!
Provo a contare le pecore, ma nella mia mente si affollano solo le immagini della strada percorsa durante la giornata. Bufali, non vedo altro che bufali, e non saltano bene come le pecore. Soffoco, grondo sudore.
Se continuo così, mi ridurrò uno scheletro. Aria, voglio aria! Chi se ne importa delle zanzare!?
A quest’ora dormiranno. Scavalco Marie-France e apro lo sportello con la stessa frenesia di chi, sul punto di affogare, riemerga improvvisamente in superficie.
Mi sento meglio non che l’aria sia rinfrescata, ma almeno si muove un po’. Stavo quasi per addormentarmi quando la prima zanzara mi è passata sopra l’orecchio a volo radente: evidentemente in missione di ricognizione. Mi sono affibbiato un potente ceffone.
Poi, a ruota, e senza una dichiarazione di guerra, mille squadriglie di ditteri si lanciano in picchiata, in ondate successive, contro il mio lobo, obiettivo nevralgico dell’offensiva. Mi schiaffeggio a raffica. Dal fronte giungono notizie sconfortanti: anche gli altri hanno ingaggiato una feroce battaglia.
È in corso un’offensiva generale. Luce! Il nemico ha colpito duramente lasciando segni vistosi: visi gonfi, natiche tumefatte. Isabelle non riesce più ad aprire l’occhio sinistro.
Ma allora, qui ci vuole l’atomica! “Coraggio, fuori tutti! “Prima di uscire da Nanobus, Marie-France ha messo il pane al sicuro e ha protetto la minestra con un coperchio: non vogliamo veleni nel rancio!
“Procedi pure!” mi sollecita. Inspiro profondamente, trattengo il fiato e mi getto all’interno del camper, assetato di vendetta. Spruzzo, a volonta, nubi letali: nella cabina, sotto il tavolo, dietro la tenda, nel bagnetto… Devo respirare!… Goffo come una marionetta, torno fuori.
“Ne ho sparso tanto da abbattere una mandria di bufali.” Richiudo piano piano lo sportello, con animo sadico: “Buonanotte, piccine mie, e sogni d’oro!” Dieci minuti di attesa. Perché non ne rimanga in vita neppure una. Purtroppo, però, dopo non si può davvero rientrare nel camper come se non fosse successo nulla: bisogna arieggiare, il che significa lasciare che la nostra casa si riempia di una seconda ondata di bestioline fresche, vigorose e avide di sangue. Abbiamo però messo a punto una tecnica di aerazione assai rivoluzionaria che ha la particolarità di stupire eventuali spettatori.
“Caroline, tu piazzati allo sportello anteriore destro! Tu, Bertrand, a quello di sinistra! Isabelle, vai al portellone posteriore. Al mio via, scuoteteli a tutto spiano! Aprire, chiudere, aprire e chiudere senza mai fermarsi! Vedrete che così non passa una sola zanzara!” Mi tappo il naso, mi insinuo all’interno, apro i vetri e il lucemario, torno fuori ormai senza più fiato e respiro una gran boccata d’aria. “Direi che i cadaveri abbondano”! Bene, siete pronti? Via! Come ogni altra volta, ridiamo come pazzi.
Qualche minuto dopo dichiaro: “Dovrebbe bastare, adesso”. Sono stati richiusi tutti gli sportelli. Ci siamo riuniti davanti a quello posteriore per precipitarci tutti insieme dentro Nanobus attraverso quel varco e richiuderlo prima, così spero, che il nemico possa seguirci. Sono le tre di notte.
Ora potrò dormire. “Papà?” “Cos’altro c’e ancora?” “Ne sento una.” Allora non me l’ero sognata. “Ce ne sono almeno quattro!” assicura, flemmatico, Bertrand. Ah, ma se ne acchiappo una, se ne acchiappo una… perdinci, se l’acchiappo… Mi sono rimesso seduto sul letto.
Adesso scoppio. Sento che sto per scoppiare! Mollo tutto qui, Nanobus, Marie-France, i bambini e queste maledette zanzare. Mi cospargo il corpo di ceneri e, ignudo, me ne vado in giro per le vie del mondo portandomi dietro solo un bastone e una ciotola di legno. Prendo un’ultima decisione: “Offro una rupia per ogni zanzara abbattuta!” Caroline ha riacceso la luce e ci siamo alzati tutti quanti un’altra volta.
Bertrand ha organizzato la battuta: Isabelle è stata messa in azione alle tende, Eric alla cabina, Caroline alla mansardina, Marie-France sul retro e io ai gabinetti. Bertrand ha ordinato: “Adesso, cominciate a scuotere tutti insieme i fazzoletti per farle scappare. E appena si avvicinano alla luce, zac! Facciamo i conti dopo”.
Gli zac non finivano più. I bambini gridavano dalla gioia e intanto ammassavano una fortuna; io raccoglievo i cadaveri in una scodella, per le eventuali contestazioni.
Nel giro di dieci minuti avevo gia perso trentaquattro rupie. Ho cominciato, allora, a ridere un po’ meno, mentre Marie-France non rideva più per nulla: “Lo sai quanti soldi ci rimangono, prima di riscuotere quel bonifico a Kabul?” I bambini hanno arrotondato il totale accontentandosi di quaranta rupie e, generosamente, si sono offerti di proseuire l’opera a titolo gratuito. Che bravi figlioli!
Marie-France
Rawalpindi, Pakistan, 26 aprile LA FINE DELL’INFERNO si avvicina. Dopodomani saremo di nuovo a Kabul. Un sogno! A milleottocento metri di quota finalmente potremo respirare.
Appena in tempo: siamo tutti allo stremo. Intanto abbiamo sistemato Nanobus in un parcheggio del centro. Potremo rifornirci d’acqua al vicino albergo.
28 aprile IL TITOLO, a caratteri cubitali, occupa tutta la prima pagina del Pakistan Times che Christian mi sta porgendo: Colpo di stato a KABUL deposto il Presidente DAOUD
“La frontiera è chiusa!
Siamo bloccati” va ripetendo Christian. “Ma non può essere! Non possiamo restare a cuocere in questo forno, senza dormire! Hai visto le facce dei bambini!” “Ma non ci rimane altra scelta.
Dopo tutto, forse la situazione si sbloccherà rapidamente.” Siamo andati all’Ambasciata afghana. L’ambasciatore si tiene sulle sue: aspetta istruzioni dal suo governo e nel frattempo non rilascia visti.
Per strada ci siamo uniti a un gruppo di pakistani che ascoltavano la radio. Sembra che a Kabul vi siano stati numerosi episodi di violenza con molte vittime. Cosa ne sarà stato dei nostri amici?
Improvvisamente mi sono ricordata che in Francia tutti dovevano crederci già arrivati in Afghanistan, e quindi coinvolti nei disordini. Siamo andati alla posta per spedire un telegramma rassicurante.
29 aprile IN AFGHANISTAN hanno proclamato la legge marziale. Abbiamo trovato un grosso albero sotto il quale mettere il camper al riparo; però dobbiamo spostarci ogni ora, per seguire l’ombra. Non so più cosa inventare da mangiare e cerco di stuzzicare gli appetiti spargendo peperoncino a piene mani.
Ammiro lo spirito d’adattamento dei bambini; nessuno di loro si lamenta mai: anzi, Eric continua a farci ridere.
1° maggio ALL’AMBASCIATA ancora nulla di nuovo. “Non so neppure cosa sarà di me” dichiara l’ambasciatore. Stavolta il nostro morale mostra segni di cedimento.
E se non la riaprissero più, quella frontiera? Qui siamo quasi rimasti a corto di denaro, mentre nella banca di Kabul ci attende un bonifico. Pensare che Christian vi ha fatto trasferire gli ultimi quattromila franchi del nostro conto! Abbiamo trascorso il pomeriggio chini sulle carte a studiare ogni possibile soluzione.
Andare ad aspettare tra i monti? Certo, li troveremmo il fresco, ma correremmo il rischio di lasciarci sfuggire un’eventuale, breve riapertura della frontiera. Aggirare l’Afghanistan da sud, attraverso il deserto iraniano, che in quest’epoca dell’anno è una delle regioni piu torride della terra? Impensabile.
Oltretutto vorrebbe dire abbandonare per sempre a Kabul i nostri ultimi soldi. “Cerchiamo di resistere un’altra settimana” conclude Christian. A quel punto dovremo per forza prendere una decisione. Al bazar ho trovato il latte cagliato: praticamente l’unica cosa, a parte la frutta, che i bambini ancora riescono a mandare giù.
3 maggio Si SUDA a rivoli dentro il camper surriscaldato. Il calore aumenta di giorno in giorno e a ogni giorno che passa lo sopportiamo sempre meno, come se la stanchezza si accumulasse.
Mi chiedo se riusciremo a cavarcela. Fin dalle dieci il termometro di Nanobus segna attorno ai sessanta gradi e li si blocca. Il frigorifero non raffredda più.
Tutto quel che mangiamo, o beviamo, e tiepido. Ora capisco perché da queste parti l’arrivo dei monsoni, seppur non di rado apportatori di catastrofi, viene atteso con tanta ansietà.
4 maggio “RENÉ, hai messo in fresco quella bottiglia di rosato?” Già da un po’ stavamo dormicchiando sotto il nostro albero quando ho sentito dapprima un rumore di automezzi in manovra e, poco dopo, quella domanda strabiliante. Mi sono chiesta se non stavo sognando.
Christian si alza di scatto. “Hai sentito anche tu?” Corriamo. Due coppie, una belga e l’altra francese, hanno appena finito di parcheggiare qui vicino i loro camper giganteschi. Partiti dall’Europa poche settimane fa per compiere un rapido giro, stanno tornando a spron battuto dall’India e i loro enormi autoveicoli ancora straboccano delle provviste fatte in Francia.
Incredulo, Christian guarda la bottiglia di rosato messa a raffreddare nel secchiello del ghiaccio; gli brillano gli occhi e non tenta neppure un rifiuto di circostanza quando René ci invita a bere l’aperitivo con loro. Il caldo, la stanchezza, e ora questo bicchiere di vino a digiuno… insomma, eccoci tutti brilli a fraternizzare allegramente. I nostri amici sono su di morale. “Domattina partiamo per Kabul!” annunciano.
Christian chiede, sorpreso: “Kabul? Ma come, non sapete? Hanno chiuso la frontiera”. “Si, l’abbiamo sentito, ma per noi fa lo stesso: Lulu conosce molto bene l’ambasciatore belga. Quindi… Per l’appunto volevamo andare a trovarlo, adesso.” Tornano dal colloquio alle diciotto.
Lulu scende dal suo camper e mi basta guardarla in faccia per capire che quelle sue amicizie all’ambasciata sono servite a poco. Mi rincresce parecchio per loro, ma d’altro canto non mi dispiace certo di non dover più contare sulle nostre sole forze sia nel caso in cui insorgessero nuove difficolta, sia qualora decidessimo di scendere verso le piste del sud.
9 maggio EVVIVA! L’Afghanistan ha finalmente sbloccato la frontiera! Christian è tornato correndo dalla sua consueta visita all’ambasciata: “Prepariamoci rapidamente, prima che cambino idea. Rilasciano visti di transito, e forse ancora per poco. Ci concedono esattamente sette giorni per attraversare il paese e, come ha precisato l’ambasciatore, “interamente a vostro rischio” perché le tribu sono in rivolta”.
Da Rawalpindi Pakistan a Jalalabad Afghanistan
10 maggio PARTIAMO alle prime luci del giorno contemporaneamente agli altri due camper. Verso metà giornata transitiamo per il Passo Khyber.
Alle tre raggiungiamo il confine. Sembra tutto normale: si nota solo qualche militare in più. Christian cerca di ottenere dai doganieri qualche informazione sulla situazione nella regione, ma quelli si mostrano poco loquaci. Prima di risalire sui camper scambiamo quattro chiacchiere con i nostri compagni di viaggio.
Ma adesso dobbiamo correre.
Percorriamo alla velocità massima consentita i chilometri che ci separano da Jalalabad. Quando scorgo le prime case tiro un sospiro di sollievo e quasi mi Sembra strano che siamo arrivati fin lì senza problemi di sorta.
Facciamo un po’ di spesa e il pieno di benzina, poi portiamo i nostri amici nei giardini dove l’inverno prima fummo autorizzati a sostare. Dopo cena prepariamo un piano per l’indomani.
“Se vogliamo darci una probabilità di rientrare in possesso dei nostri quattromila franchi” spiega Christian, “dobbiamo raggiungere Kabul prima di mezzogiorno. Se tardiamo, non combineremo nulla perché nel pomeriggio comincia il fine settimana musulmano. “La partenza, pertanto, avverrà all’alba”.
Kabul
11 maggio NELLA CAPITALE si respira un’aria strana. In ogni luogo ci sono militari e carcasse di carri armati. Nanobus si destreggia fra i crateri scavati dalle bombe nelle strade e passa davanti a muri crivellati dalle raffiche delle mitragliatrici. Corriamo in banca, ma senza tante speranze: quando mai il nuovo regime vorrà riconoscere i debiti di quello passato? Sorpresa! Incredibile sorpresa.
Torniamo, un’ora dopo, in strada portando in tasca i nostri quattromila franchi, tutti, dal primo all’ultimo. Seguiti dai nostri amici andiamo al Gulzar Hotel. Eccola, Tata Martha, eccola qui.
Baci e abbracci a non finire. A bassa voce, poi, ci racconta l’accaduto: i bombardamenti, la sparatoria a palazzo, le picchiate agghiaccianti degli aerei, che scendevano fino a sfiorare il tetto dell’albergo.
12 maggio PER TUTTA la notte abbiamo udito sparare. “Ci sono stati tantissimi arresti” ha detto Tata Martha. Se camminiamo per strada, dobbiamo stare attenti a non parlare col primo venuto: le autorità esigono che i controrivoluzionari vengano denunciati.
Mentre facevamo la spesa siamo passati davanti al palazzo dell’ex-presidente Daoud.
Di loro iniziativa i soldati ci hanno accompagnati fin dentro l’ufficio dove il presidente si è fatto uccidere. Partiamo domattina, molto presto.
Epilogo Marie France Dintorni di Parigi
20 novembre 1978 PARIGI, cinque chilometri! Una strana sensazione di vuoto. Tante automobili, tanto acciaio e cemento e così poche persone… Poco fa ci siamo fermati in un autogrill per avvertire i parenti del nostro arrivo. Commozione generale.
Da quel momento all’interno di Nanobus regna il silenzio. Sarà certamente a causa dei troppi pensieri, delle troppe emozioni, dei troppi sentimenti contrapposti. Il tempo dello svago è finito.
Pochi giorni ancora e i bambini torneranno a scuola; fra tre settimane Christian avrà ripreso il suo posto in ufficio. “Ecco! Adesso riconosco le strade e le case” annuncia a gran voce Isabelle.
È vero: non è cambiato nulla, né la gente, né gli edifici, né le vie. Nanobus si è fermato.
Eccoli tutti li, parenti e amici carissimi. Ci abbracciamo, scambiandoci baci a non finire, incapaci di parlare. Io, ovviamente, mi metto a piangere. Oggi, però, non sono l’unica.
Meudon
15 dicembre MALEDETTA sveglia! Mi è risuonata nelle orecchie per un minuto buono prima che trovassi il pulsante di arresto. Un quarto alle sette! Così tardi! Che buio, fuori!
Mi si stringe il cuore al pensiero di dover svegliare i bambini. “Coraggio, tutti in piedi, che è ora!”
Corro a preparare la colazione sul fornelletto da campeggio piazzato nel mezzo della cucina vuota del nuovo appartamento.
Oggi Christian torna per la prima volta in ufficio. I bambini, invece, hanno ripreso la scuola già da tempo. Ieri sera Isabelle è rincasata di corsa sventolando il diario: “Sapete cosa mi hanno dato per tema? -Raccontate le vostre ultime vacanze-!
Meglio di cosi!” Ci riuniamo tutti nell’ingresso, pronti per salutarci. Quando arriva Christian, i bambini scoppiano a ridere: “Sembri un vero damerino, papà, tutto incravattato!” “Ecco, bravi: prendetemi in giro! Ma avete poco da fare i furbi, voi! Guarda quello lì, che sparisce dietro la cartella. Ma davvero per oggi vi serve tanta roba?” La porta si è richiusa. Sono rimasta sola. D’un tratto l’appartamento mi sembra troppo grande. L’aver trascorso circa un anno e mezzo dentro Nanobus ha lasciato il segno.
E, dopo aver venduto tanta roba prima della partenza, i mobili adesso non ci sono certo d’ingombro! Ormai le attività familiari troveranno un loro spazio solo alla sera e nei fine-settimana. Corro sul pianerottolo e li riacciuffo davanti alla porta dell’ascensore. “Su, andiamo, datemi tutti quanti un bacio, buffoncelli! E adesso cosa vi prende? Non restate a guardarmi a quel modo! Non vorremo mica metterci a piangere, vero?”
Caroline
SE UN GIORNO, trovandovi a passare per Meudon, vi capitasse di vedere in un parcheggio un piccolo e malinconico Nanobus, mi raccomando: salite in casa a salutarci!
Il nostro appartamento, privo di letti e povero di mobili, potrà forse sembrarvi un po’ vuoto, ma in realtà strabocca di sogni.
E, forse, vi metterete in viaggio anche voi? Potremo darvi notizie fresche di molti nostri amici: di Lesley e Brian, che è stato salvato dal suo medico; di Ashoo, che ci ha invitati al suo matrimonio.
Ma, siate buoni, non chiedeteci nulla degli amici di Kabul, perché le nostre lettere rimangono senza risposta. Quando poi tornate in strada, per favore, consolate a lungo Nanobus.
Ditegli di non lasciarsi troppo arrugginire dalla tristezza. Ditegli che gli stiamo preparando nuove avventure.
Notizie sull’autore
I Des Pallières Sembra impossibile riuscire a conciliare avventura e vita familiare, eppure non è cosi per la famiglia Des Pallières, la cui felicità consiste nel realizzare insieme i sogni più belli.
I coniugi Des Pallières, Marie-France e Christian, quando si conobbero, sembravano fatti l’una per l’altro: entrambi condividevano gli stessi ideali e avevano una comune passione per i libri, la musica, i viaggi e le avventure. Con queste premesse misero su famiglia e, dopo la nascita di Caroline, Bertrand e Isabelle, si trasferirono per un certo periodo in Marocco dove, a Casablanca, nacque anche l’ultimogenito, Eric.
Tornati in Francia, si stabilirono a Meudon, una cittadina vicino Parigi, che rappresenterà sempre il loro punto d’approdo in un’esistenza abbastanza nomade.
Infatti, dopo l’avventuroso viaggio che li ha portati fino in Nepal, i Des Pallières si sono spinti ancora più lontano, fino in Cina. “II camper è un’invenzione davvero straordinaria” sostiene Marie-France.
“Puoi portarti dietro tutto ciò che occorre, abitare ovunque e ovunque sentirti come a casa. Durante le nostre scorribande ce la prendiamo comoda e spesso io e Christian ci diamo il cambio al volante.
Ovviamente abbiamo dovuto risolvere non pochi problemi riguardanti la scuola dei nostri figli, ma i ragazzi hanno imparato così bene a far tesoro di tutte le cose viste e vissute durante i nostri viaggi, che al ritorno a casa se la cavano egregiamente con gli esami.
Quale insegnamento, d’altronde, è migliore dell’esperienza diretta?” Quando si domanda a Marie-France se hanno altri progetti nel cassetto, risponde: “Di idee ne abbiamo molte, ma lasciateci il tempo di respirare.
Dobbiamo ancora finire il nostro secondo libro e ci stiamo occupando del montaggio di un film tratto dalle nostre avventure”. E Nanobus, il loro simpatico mezzo di trasporto?
I Des Pallières lo usano normalmente per le loro commissioni quotidiane e, quando è tempo di vacanze, percorrono le strade di Francia in attesa di tornare su quelle del mondo.
Tratto dal libro “In camper a Katmandu” appunti di viaggio dei Des Pallieres Edito da Selezione dal Reader’s Digest, condensato da “Quatre enfants et un rêve” éditions Albin Michel Paris.