Forse vale la pena ricordare
che in un paese con tanta acqua,
la gente muore di sete. La nostra
missione era di inaugurare un
acquedotto in un villaggio di montagna.
di Francesco Florenzano
Nel novembre del 2005 ho avuto l’opportunità di visitare il Rwanda come membro di un viaggio organizzato dal Sindaco di Roma Walter Veltroni.
Il viaggio è stato breve ma intenso.
In pari tempo nello spazio di qualche giorno sono stato catapultato in una dimensione nuova, inaspettata, almeno per me.
Dove fosse l’Africa subsahariana lo sapevo attraverso le cartine geografiche, cosa fosse, attraverso le notizie di stampa e qualche buon libro.
Le notizie dall’Africa, se ci avete fatto caso, sono come le notizie dell’Italia all’estero: guerre, casi di corruzione, omicidi, ecc. Ovvero rimbalzano solo i casi che danno il senso della tragedia e della violenza.
Pochi giorni prima della partenza, ad esempio, si era diffusa la voce, attraverso una notizia di agenzia, ovviamente ripresa da tutti i giornali italiani, che in Rwanda ci fossero i cannibali.
La notizia si riferiva ad un processo in corso nei confronti di una persona accusata di aver mangiato 3 persone alcuni anni fa.
La notizia ha colpito l’immaginazione di tutti coloro che mi hanno incontrato nei giorni precedenti la partenza: non c’è stato nessuno di questi che non mi abbia espresso la preoccupazione rispetto al pericolo di andare in Rwanda e confesso che anch’io ho pensato spesso a questo fatto, alla possibilità di finire in un pentolone ed essere mangiato.
Quando siamo arrivati all’aeroporto di Kigali, di notte, mi sono accorto che di cannibali non se ne vedevano, anzi che le facce che ci stavano intorno e che ci stavano attendendo non erano affatto minacciose e tanto meno in attesa di mangiarci.
Ma quella notizia aveva creato in me e in altri viaggiatori un’idea tribale, da film di Holliwood, con scene raccapriccianti di sacrifici umani alla King Kong.
Come dicevo, presto, molto presto mi sono accorto che il Rwanda non era infestato di cannibali ma di gente, esattamente come noi.
Con la sua organizzazione, la preoccupazione di essere all’altezza del compito assegnato ovvero quello dell’ospitalità.
Il Rwanda ci è apparso subito nella sua operosità.
La strada che conduce al centro di Kigali a partire dall’aeroporto, dista circa 25 Km.
Dal finestrino del pulmino che ci portava al nostro albergo, si vedevano tantissime persone camminare con andatura veloce.
E si trattava delle 6 del mattino!
Il primo pensiero che ho avuto è stato sul fatto che da sempre ho creduto che gli africani fossero dei fannulloni, capaci di dormire fino a tardi e di lavorare lentamente.
Ora vederli camminare veloci per raggiungere chi il lavoro, chi la scuola, chi una bancarella per vendere qualcosa che ha raccolto, mi dava il senso di quanto sono stato credulone e quanto sono stato anche strumentalizzato dalle immagini che noi occidentali abbiamo contribuito a dare del popolo africano.
Dunque il primo insegnamento di questo breve viaggio in Rwanda è stato sul tempo e la velocità.
I rwandesi vanno a piedi perché non possiedono altri mezzi, altri vanno con pulmini privati per il trasporto, altri vanno con dei mototaxi, maschi e femmine, intravisti non appena ci avviciniamo alla città.
Kigali ha in comune con Roma solo una cosa: le colline.
Infatti il Rwanda è anche chiamato il paese delle mille colline.
Kigali si presenta immediatamente con i suoi sobborghi e le sue baracche.
Ho pensato al Brasile perché è il paese che conosco meglio, mi sembrava di stare nella periferia di San Paolo.
Il paesaggio è simile, stessi alberi, mango e banani, stessa terra rossa, stesse facce, stesse persone.
Dunque Kigali si presenta subito circondata da abitazioni improbabili, povere, con la gente che preferisce stare fuori casa a guardare piuttosto che stare dentro, in quanto la baracca è un dormitorio e basta.
Intravedo dalle porte spalancate un arredamento rappresentato solo dal letto, a volte a castello.
Piccole case che ospitano molte persone.
Al mattino presto dunque tutti stanno davanti casa e spinti dalla curiosità della nostra carovana (circa 30 pulmini) agitano le mani e mostrano un sorriso, gridando benvenuti (in rwandese).
Kigali poi cambia, si vedono palazzi, chiese, antenne paraboliche, grandi alberghi, residenze di lusso, militari in jeep, le sedi delle grandi organizzazioni umanitarie, la cooperazione tedesca, francese, inglese, ecc.
Entriamo nel quartiere più lussuoso e più protetto della città.
Ecco davanti a noi l’Hotel des Milles Collines, quello del film Hotel Rwanda, lo stesso del film, esattamente quello che avevo visto lì rappresentato.
La seconda cosa che mi ha insegnato questo viaggio è che la memoria di un eccidio non si cancella così facilmente e le immagini dei corpi straziati, delle sofferenze ma anche delle gesta eroiche di alcuni, ti piombano addosso immediatamente.
Così scaricando i primi compagni di viaggio all’Hotel des Milles Collines mi viene in mente il dramma secolare del Rwanda non solo del genocidio del 1994.
Il Rwanda è stato funestato soprattutto da quando i Belgi lo hanno colonizzato da scontri, guerre, vendette, assassini e stupri.
Il genocidio del 1994 nella sua follia e nella sua rapida esecuzione è un qualcosa che difficilmente si può dimenticare.
Infatti sono proprio i rwandesi a non averlo dimenticato.
Ognuno ha un parente, un figlio, un genitore, un amico coinvolto nel genocidio, chi perché è morto trucidato chi perché ha partecipato al massacro.
Dieci anni da quella data sono veramente pochi per dimenticare.
Quindi si vede che i rwandesi ricordano bene quel terrore e la follia che ha investito soprattutto la gioventù. Io non sono esperto a sufficienza per parlare e descrivere cosa è veramente accaduto nel 1994, ma qualunque colpa, qualunque avvenimento che lo abbia scatenato, non giustifica una così grande partecipazione nell’esecuzione di un disegno di annientamento di intere generazioni.
La speranza di un mondo migliore è però presente in molte persone in Rwanda, lo si capisce dagli sguardi, che sebbene a distanza di 10 anni dal genocidio, riescono a trasmettere che occore pensare al futuro, a quello che occorre fare immediatmente, di cosa si ha bisogno ora e poi.
Questo però, l’ho capito dopo, quando finalmente abbiamo incontrato nella sede della Comunità di Sant’Egidio i primi ragazzi rwandesi.
I ragazzi e bambini sono come di consueto i protagonisti di questi incontri: gli spazi del centro sociale che abbiamo visitato sono interamente dedicati a loro: scuola, teatro, campo di calcio, ecc.
La richiesta più pressante si è rivelata quella della nostra e-mail, per poter comunicare, per gettare un ponte tra loro e noi, per avere la speranza di andare via da un destino percepito come difficoltoso.
La richiesta della e-mail ci ha accompagnato per tutta la visita nonostante la pioggia intermittente e i mille torrentelli che si sono subito creati intorno a noi.
Guardavo le mie scarpe, le vedevo rosse avvolte dalla terra d’Africa. Nel centro per la gioventù si vedeva però un altro Rwanda, quello a cui siamo abituati in Europa.
I bambini stanno a scuola, disegnano, cantano, ballano, sorridono. Ecco i rwandesi hanno qualcosa di diverso da noi: sanno sorridere, noi decisamente no.
Mille sorrisi, mille complimenti, domande “come si vive nel vostro paese?”, “dove si trova l’Italia?”, “cosa mangiate?”.
Curiosità di bambini, le stesse che tutto sommato avevamo noi nei loro confronti. “Dove sta il Rwanda?”, “Come sono fatti e come vivono?”.
Capiamo che il popolo rwandese è unico, che nessuno dall’esterno è veramente capace di distinguere un Hutu da un Tutsi e che soprattutto hanno tutti corpi molto belli.
Il Rwanda da quel momento mi è apparso in tutta la sua umanità, con tutti i suoi problemi ma anche con la speranza di un futuro diverso.
Da lì a poco ci troviamo nel vortice delle visite che ti lasciano il segno: il memoriale del genocidio. In quel momento il nostro pensiero si è diretto a quel milione di persone che sono state trucidate, a quelle donne, giovani e anziane, a quei bambini, alle migliaia di machete adoperati.
Ecco il Rwanda del genocidio prendere forma ed ecco che il dolore, la paura, l’ansia di non volersi trovare in quella dimensione ritorna.
Ma ora c’è solo la testimonianza e noi che siamo lì come spettatori veloci e superficiali non possiamo far altro che ascoltare le parole del console Costa, premiato come uomo di pace, e cercare di capire il perché di tanta follia.
Nei giorni seguenti ho potuto ammirare un paesaggio rigoglioso, colline e montagne con piantagioni di the e di pepe, bambini a volontà lungo le strade a salutarti e a implorarti di dargli il recipiente (con l’acqua).
Forse vale la pena ricordare che in un paese con tanta acqua, la gente nuore di sete.
La nostra missione era di inaugurare un acquedotto in un villaggio di montagna.
Ed ecco Veltroni e noi accolti da migliaia di persone.
Ecco i discorsi della nomenclatura. Un sole cocente per tutti, balli folkloristici a volontà, canti.
Il Rwanda si è rivelato velocemente a me e agli altri. Il nostro viaggio poteva aver termine.
Il Rwanda ha tante cose che ci somigliano, alcune perché eravamo così anche noi, altre perché siamo così anche noi.
Questo piccolo pezzo dell’Africa non ha solo disperazione e povertà, ha anche una grande umanità che vuole intraprendere un cammino verso un nuovo mondo che dia una speranza e una concretezza ai sogni e ai desideri.