I colori che le dune assumono grazie ai raggi radenti del sole, ci scaldano dentro sebbene la temperatura esterna cominci a scendere quando le ombre, sempre più lunghe, disegnano sulla sabbia figure familiari che ci abbracciano e ci coccolano per darci il benvenuto nel deserto, il “luogo senza nessuno”, il Namib.
di Anna Laura Neroni e Sergio Melini
L’Africa è una passione, dopo averla respirata e vissuta almeno una volta diventa un “male” di cui non puoi più fare a meno, magari praticando safari più o meno turistici, alloggiando in lussuosi alberghi o lodges, dove non manca proprio nulla; poi questo non ti basta più, allora decidi di fare un viaggio “diverso” per visitare una delle terre più inospitali del pianeta: la Namibia (dicono che Dio l’abbia creata in un momento di rabbia).
Per la nostra terza vacanza in Africa, quindi, abbiamo scelto un Tour Operator specializzato in viaggi-avventura, che prevede alcune notti in tenda-igloo 2×2 (fornita dall’organizzazione); tra i documenti di viaggio, un comunicato ci avvisa che la nostra sarà una vera e propria spedizione e che dovremo equipaggiarci per il campeggio, a cominciare dal sacco a pelo (meglio se adatto per sopportare temperature abbastanza basse, visto che in agosto nell’emisfero australe è inverno inoltrato, con una forte escursione termica tra il giorno (+25/30°) e la notte (0/-1°).
La partenza è imminente, ci rendiamo conto di avere i minuti contati per procurarci quello che manca; con la classica frenesia cittadina, ci catapultiamo in un megastore di articoli sportivi aperto fino a tarda sera dove, in una bolgia di clienti (anche loro dell’ultima ora), troviamo ciò che cerchiamo. Finalmente!
Non resta che mezz’ora di fila alla cassa e un’altra ora di caos automobilistico per rientrare a casa, sognando spazi immensi, scenari possenti, lontanissimi da questa nostra affollata civiltà.
Il viaggio namibiano inizia all’aeroporto di Windhoek, la capitale situata a 1.630 m.slm.
L’aeroporto è molto distante dalla città, poiché costruirlo nei suoi pressi sarebbe stato impossibile data la conformazione geografica di questa parte della Namibia, avara di zone pianeggianti; il trasferimento in città ci fa già capire quale sarà il paesaggio dell’altipiano che percorreremo nei prossimi giorni.
È d’obbligo una visita alla città, dove la lingua più parlata è il tedesco (la strada principale, oggi Indipendence Avenue, prima dell’indipendenza si chiamava Kaiser Strasse!) e dove costruzioni moderne affiancano chiese luterane, curiose costruzioni in stile tedesco e rigogliosi giardini.
Il giorno successivo partiamo per il tour che sappiamo essere avventuroso ma non immaginiamo ancora quanto. fuoristrada (due Toyota da 3.600 cc e una da 4.700 cc, rigorosamente alimentate a benzina) ci aspettano all’esterno del nostro lussuoso albergo, attrezzati di tutto punto per affrontare insieme i prossimi 18 giorni, durante i quali percorreremo circa 4.000 Km, di cui l’80% su strade sterrate episte fuoristrada.
Il nostro gruppo è abbastanza eterogeneo, siamo in 13, comprese le 3 guide-autisti (esperti dei territori della Namibia e, soprattutto, della guida 4X4 in fuoristrada) un italiano, un sudafricano e un angolano, quest’ultimo ci sarà molto utile, soprattutto nella seconda parte del viaggio nei contatti con la popolazione Himba.
Ci dirigiamo quindi verso ovest, tra le montagne che delimitano l’altopiano centrale dalla fascia costiera desertica; paesaggi unici si aprono improvvisamente davanti ai nostri occhi oramai non più abituati ai grandi spazi.
Pernottiamo al Petrified Dune Lodge, una farm nei pressi del Parco Nazionale del Namib; un posto mozzafiato dove le dune (che, come dice il nome, subiscono un processo di pietrificazione) sono proprio di fronte alla porta della nostra stanza e, all’alba, sembrano brillare di luce propria ma è ovvio che sono le prime ad essere illuminate dai raggi del sole sorgente. Le visitiamo nel momento più suggestivo della giornata: il tramonto.
Seduti sulla sabbia rossa, che dal Kalahari compie il suo lungo, ventoso viaggio per mettere millenarie radici qui, proviamo una sensazione di serenità e di tranquillità; i colori che le dune assumono grazie ai raggi radenti del sole, ci scaldano dentro sebbene la temperatura esterna cominci a scendere quando le ombre, sempre più lunghe, disegnano sulla sabbia figure familiari che ci abbracciano e ci coccolano per darci il benvenuto nel deserto, il “luogo senza nessuno”, il Namib.
È da qui che inizieremo le escursioni per il Sesriem Canyon e per le famosissime dune color albicocca di Sossusvlei, che superano i 300 m. di altezza, le più alte del mondo.
Grazie alle auto 4×4 possiamo avvicinarci alle dune, evitando il lungo tratto di strada a piedi dal parcheggio delle 2×4, decisamente impegnativo soprattutto nelle ore più calde; abbiamo così risparmiato preziose energie per affrontare la faticosa scalata di una di quelle montagne di sabbia (circa 100 m di altezza) che, una volta arrivati in cima, ci ripaga ampiamente dello sforzo presentandoci un caleidoscopio di colori che cambiano a seconda di dove guardi e di come il sole illumina la sabbia: ora arancio, ora ocra, ora albicocca matura, ora avana o quasi grigio mentre i nostri occhi guardano oltre l’orizzonte cercando un limite che non esiste; salire sulla duna è stato appagante, scendere è stato come volare.
Tornati al lodge, anche la notte ci regala uno spettacolo unico; un cielo stellato incredibilmente luminoso, come desideravamo vedere da tanto tempo; un momento magico e uno splendido regalo di compleanno che rimarrà indelebile nelle nostre menti.
L’indomani si riparte in direzione di Swakopmund; anche questo spostamento ci riserva molte sorprese: improvvisamente, lungo la pista, nel bel mezzo del deserto, grandi rocce sparse come se fossero state messe lì di proposito; sono massi di dolerite ricchi di ferro che, se percossi, suonano come un martello su un’incudine di 125.000.000 di anni fa.
Seguendo la linea delle montagne con la cresta di dolerite (come dinosauri giganti) siamo finiti dritti-dritti nella Valle della Luna (Moon Valley) non prima di aver visto la Valle delle Welwitscie; sono piante endemiche che, sorprendentemente, raggiungono i 2.000 anni di età (datati con il metodo del “carbonio 14”), producono solo due foglie nastriformi che possono raggiungere i 5 m di lunghezza per nutrire la pianta trattenendo l’umidità della notte; non ci crederesti mai ma sono delle conifere, proprio come i nostri pini e abeti, i maschi e le femmine si distinguono dalla forma più o meno lunga delle piccole pigne che producono.
Questo si sta rivelando un viaggio in astronave o nella macchina del tempo: in pochi chilometri cambia il pianeta o l’era in cui ti trovi.
Giungiamo a Swakopmund, una deliziosa cittadina posizionata direttamente sull’Atlantico, in tempo per ammirare uno splendido tramonto sull’oceano che raramente è così limpido, a causa della fitta nebbia che staziona su questo tratto di costa, provocata dall’incontro di due correnti (quella calda del Kalahari, proveniente da est, e quella fredda del Benguela, che giunge dall’Antartico).
Infatti, il giorno seguente siamo meno fortunati ma ciò non ci impedisce di partire per la cittadina di Walwis Bay, circa 30 Km più a sud, dove ci viene rilasciato il permesso indispensabile per effettuare l’escursione a Sandwich Bay.
Raggiungeremo la baia, circondata da enormi dune di sabbia, dopo uno spettacolare percorso in parte sul bagnasciuga e in parte sulle dune.
Purtroppo l’oceano se ne sta lentamente riappropriando ma, con un occhio all’orologio per tenere sotto controllo la marea, ci gustiamo il mare, i gabbiani, le foche e le gialle dune che si uniscono alle verdi onde oceaniche che lasciano sulla riva una spuma bianca che, mossa dal vento, ribolle, pulsa, sembra viva.
Rientriamo a Swakopmund e decidiamo di effettuare un’escursione (piuttosto costosa ma ne vale la pena!) con un piccolo aereo per ammirare da un punto di vista privilegiato gli stessi luoghi visitati nei giorni precedenti.
In 2 ore e 20 sorvoliamo le dune rosse, i laghi asciutti e lisci come specchi; ci sorprende scoprire come è diverso dall’alto il Deadvlei e il letto del Quiseb River ci appare come un fiume di alberi che si perde nell’infinito desertico; ci commuove la desolazione delle miniere di diamanti, fantasmi insabbiati come il relitto della Skeleton Coast.
Siamo al settimo giorno del nostro viaggio, oggi termina la parte “turistica”.
Mentre noi passeggiamo per le graziose strade di Swakopmund, le guide mettono a punto le macchine, fanno i rifornimenti di viveri, acqua e carburante per affrontare i nove giorni di campo che ci aspettano.
Quindi partiamo verso il nord, costeggiando l’Oceano Atlantico e il Parco della Costa degli Scheletri. è doverosa la visita a Cape Cross, il luogo dove, nel 1486, sbarcò il navigatore portoghese Diego Cao, il primo europeo a mettere piede sul suolo dell’attuale Namibia, e dove oggi si è stabilita una comunità di simpatiche otarie; ce ne sono circa 80.000 e vivono lì tutto l’anno.
Il paesaggio è assolutamente desertico, solo stentati licheni riescono a sopravvivere aggrappati alle poche rocce emergenti dalla sabbia, si nutrono semplicemente dell’umidità condensata che si deposita come minuscole gocce di pioggia; la pioggia vera, in questa area considerata una delle più aride della terra, cade solo poche volte in un decennio.
Finalmente è giunto il momento del nostro primo campo; siamo nella valle dell’Ugab e faremo l’esperienza di vivere (anche se solo per una notte) come chi di vivere ne fa un’esperienza, quale quella di salvare la natura, il nostro bene più prezioso; siamo ospiti del Save The Rino Trust, qui ci è permesso di condividere un paradiso terrestre alla ricerca dei grandi animali.
Inseguiamo orme fresche di leoni e di elefanti ma loro vagano nei grandi spazi e non si fanno vedere. Le tracce di un elefante grande e di uno piccolo segnalano il loro passaggio durante la notte tra le nostre tende; prima di lasciare il campo un barrito echeggia lungo il canyon, illudendoci per un attimo.
Da oggi, ogni mattina ci sveglieremo molto presto, bisogna smontare il campo e dopo la colazione ci rimettiamo in viaggio.
Con uno spettacolare ed emozionante percorso fuoristrada raggiungiamo la regione del Damaraland, una terra antichissima abitata dal popolo Damara; in queste zone selvagge dove è inutile avere con sé il cellulare è stato prezioso l’uso del GPS.
Tra le montagne di arenaria visitiamo i graffiti preistorici di Twyfelfontein (la sorgente insicura), dove popolazioni di antenati cacciatori boscimani hanno lasciato il loro testamento di esperienze sulle rocce rossastre.
Attraverso piste selvagge, accampati sulle rive o nei letti asciutti dei fiumi, la nostra meta è l’incontro con il popolo Himba.
Siamo arrivati nel Kaokoland, nel nord est della Namibia, una delle zone più selvagge e inospitali del paese.
Gli Himba sono pastori nomadi, che vivono in comunità isolate, secondo la loro secolare tradizione e cultura.
Si spostano seguendo la pioggia e i pascoli, lasciando (per poi ritornare) i piccoli villaggi di capanne circolari fatte di rami e di fango; al centro c’è sempre il recinto degli animali, la loro ricchezza e fonte di vita.
Gli Himba sono belli, fieri e forti, temprati dalla vita all’aria aperta senza ombra di comodità cittadine; fanno molti chilometri al giorno per guidare il bestiame ai pozzi o portare grandi taniche d’acqua al villaggio; quest’ultimo compito spetta alle donne, le incontriamo lungo le strade, a volte cavalcano un asino, a volte sono a piedi con i bambini più grandicelli che gli trotterellano dietro e i più piccoli addormentati sulla schiena; ci accolgono a volte sorridenti a volte diffidenti, accettano i regali che offriamo (farina, tabacco, zucchero) in cambio, posano, orgogliose della loro bellezza, per le nostre macchine fotografiche.
Indossano gonnellini di pelle di capra, gambali alle caviglie e cerchi ai polsi; le donne sposate sfoggiano tra i seni un antico gioiello di famiglia, l’ozohumba, una conchiglia bianca proveniente dalle coste dell’Angola, e hanno un ciuffo di pelle sulla fronte.
I capelli sono raccolti in trecce, due per le giovani in età prepuberale, tante per le donne mature.
Si cospargono il corpo e i capelli con un impasto ocra di argilla e grasso animale, che protegge la loro pelle e le rende splendenti.
Nei villaggi, durante il giorno, rimangono solo le donne anziane e quelle incinte; in uno di questi villaggi avviene l’incontro con una giovane donna muta, aspetta un bambino, il terzo; è un incontro toccante, il più vero, perché con lei non c’è l’ostacolo della lingua, i suoi gesti e le sue espressioni sono anche le nostre, ci sorride, è serena.
Lasciamo il villaggio un po’ vergognosi di aver violato il suo isolamento, di averla contaminata con il nostro frenetico modo di vivere.
L’itinerario attraverso la Kaokoland costeggia il parco della Skeleton Coast, passando per alcuni interessanti pozzi (Purros e Orupembe), fino alla selvaggia vallata di Marienfluss, una distesa di erba gialla che cresce sulla sabbia rossa.
La pista per raggiungere questa valle è irta di difficoltà (bisogna oltrepassare un passo dove è necessaria una grande esperienza di guida fuoristrada), questo, insieme agli spettacolari colori della natura, ne fa un luogo magico, unico al mondo, che ci porteremo nel cuore per tutta la vita.
La vallata finisce sulle rive del grande fiume Kunene, che segna il confine con l’Angola.
Sulle rive del fiume dormiremo in una splendida notte stellata e tra le sue rapide (al sicuro dall’appetito dei coccodrilli) troveremo il refrigerio di un bagno dopo quattro giorni di acqua razionata.
Ripercorrendo la stessa pista lasciamo la valle di Marienfluss per raggiungere le Epupa Falls; lungo la strada incontriamo intere famiglie di Himba intenti ad abbeverare il bestiame.
Compiono gesti antichi, ognuno ha il proprio ruolo: un giovane attinge l’acqua dalla profonda buca scavata nella sabbia; una donna la versa nel tronco cavo che serve da abbeveratoio; i bambini più piccoli tengono a bada le bestie che assetate si contendono quella preziosa acqua.
L’ultima notte in tenda la trascorriamo in un accogliente campeggio sulle rive del Kunene, dove il fiume forma le famose cascate di Epupa, precipitando in profonde gole fra enormi massi di granito tondeggianti e una ricca vegetazione di palme e baobab che protesi verso l’acqua, sull’orlo del precipizio, sembrano sfidare la legge di gravità.
Torniamo alla civiltà trascorrendo due giorni all’interno del Parco Etosha, in comodi lodges.
La riserva è ricca di animali e copre una superficie di 22.570 Kmq, al suo interno il Pan, una straordinaria superficie di argilla e sale dalla luminosità abbagliante che si trasforma in un bacino colmo d’acqua nei periodi delle grandi piogge.
Il viaggio volge al termine, un nastro di asfalto lungo 600 Km (l’unico della Namibia) ci riporta a Windhoek e all’aeroporto.
Voliamo verso casa portando negli occhi e nel cuore gli sguardi, i sorrisi e i gesti di saluto delle bellissime donne Himba, mentre si allontanano per tornare, come noi, alla vita di sempre.
Anna Laura e Sergio alauser@libero.it