Il commercio carovaniero, si distribuiva
fino a distanze di 650 Km.
Talvolta bastava che la
carovana dei pellegrini fosse riconosciuta
sotto la protezione di un uomo santo
(marabutto) noto per le sue virtù,
per imporre rispetto religioso sufficiente
per passare incolumi e senza dover
pagare l’onere dei tributi nei
territori in cui la fama del santo era riconosciuta.
di Marino Alberto Zecchini
Nel quadro dei trasporti carovanieri, il sud tunisino è stato, nella storia remota e in quella più recente, un territorio di grande traffico. La regione di Nefzawa e la cittadina di Kebilli in particolare furono importanti luoghi di mercato di schiavi, portati con le carovane dalle terre dell’Africa nera.
La gente del nord, di Gabes, Kairowan e di Tunisi veniva ad acquistare “l’uomo”, impiegato poi nei lavori più faticosi e ritenuti ignobili: servi, agricoltori e guardiani di animali, queste erano le destinazioni più comuni.
A testimonianza di tale massiccia deportazione di uomini neri, è interessante notare la presenza di due frazioni, nelle cittadine di Gabes e Kebilli, denominate entrambe nasla e abitate tuttora esclusivamente da gente nera.
Sino all’inizio del corrente secolo, l’economia mercantile si svolgeva per mezzo di grandi carovane, che, con il loro passaggio regolare, contribuivano all’animazione economica di tutta la regione, sia direttamente, con il commercio degli schiavi e delle merci, sia indirettamente con il complementare indotto, costituito dalla fornitura degli animali da soma e delle derrate alimentari.
I commerci non si svolgevano unicamente su grandi distanze, ma anche su quelle che potremmo definire con termine marino, ma pertinente per analogia, di “piccolo cabotaggio”.
Questo commercio carovaniero, specifico della regione, si distribuiva fino a distanze di 650 chilometri che, non a caso, sono le medesime tra Douz e Tunis, Douz e Tripoli, Douz e Ghadames e Douz e ‘Ain Salah, cosicché i vecchi mercanti considerano tuttora Douz as sorra (l’ombelico), il centro della regione, da dove partono a raggiera le piste per i mercati del nord e per quelli del deserto.
I convogli cammellati dei mercanti attraversavano in ogni direzione i territori del sud tunisino ed i rischi di razzie, da parte di bande beduine, erano sempre ben valutati, tanto che per maggior sicurezza erano soliti accordarsi con le tribù delle località attraverate per ottenere la protezione, dietro pagamento in percentuale sul valore delle merci trasportate.
Così che da Nefzawa verso Ghadames gli accordi erano presi con le tribù Wergamma, di cui fanno parte gli Uderna e i Towazin di Tatawin e fino a R’mada, e con i Tuaregh Magastassen di Ghadames. Verso est in direzione Tripoli i mercanti pagavano il tributo di protezione agli Uled Yaqub di Kebilli ed ai Beni Zid di El Hamma, mentre ad ovest, sulla pista per ‘Ain Salah, la protezione era richiesta ai Trud ed ai Sjahmba, nomadi algerini, che davano protezione fino alle terre marocchine.
Al qafila (la carovana). Quando i ricchi mercanti decidevano di investire in una carovana, gli incaricati provvedevano ad affittare i dromedari dagli allevatori e, cosa assai importante, ad affidare alle capacità e alla riconosciuta esperienza di un uomo il comando della carovana stessa.
Egli, al qayd (il condottiero), doveva raccogliere in se le doti di mercante, politico e condottiero nonché di profondo conoscitore del deserto.
Sarebbe stato suo compito parlamentare con i capi tribù dei territori attraversati per ottenere il permesso e la protezione durante il transito e, all’occorrenza, fronteggiare eventuali attacchi di bande razziatrici.
Da Douz, nota località di allevatori di dromedari, partivano lunghe carovane di oltre 500 animali carichi di mercanzie e molti cammellieri, sempre scortati da uomini armati, che durante le soste si appostavano a guardia de convoglio.
Al hatya (l’incitamento). Quando il cammino era lungo e i dromedari stanchi per il carico, il capo carovana sceglieva tra i suoi uomini qualcuno dalla voce melodiosa e lo disponeva in fondo alla colonna affinché intonasse dolci canti, allo scopo di sollevare lo spirito e riposare i cuori dei cammellieri e dei loro animali. I dromedari amano la voce dell’incitatore: li incoraggia ad affrettare il passo e a sopportare le fatiche.
Presto si instaura una sorta di stato ipnotico nell’intero gruppo, che cammina con passo cadenzato e silenzioso sulla soffice sabbia.
Il cantore prevale sulle fatiche dell’intera carovana, che prosegue il suo cammino sino al punto di sosta deciso dal qàyd.
Si racconta che la voce dell’incitatore abbia un tale potere sul dromedario che in talune circostanze l’animale, seppur stremato dalla fatica, continui il suo passo sostenuto dalla voce cantilenante del cammelliere, fino a cadere a terra morto, senza dare alcun preavviso.
Questa forma, interpretata come carattere stoico dell’animale, ha fortemente contribuito alla sua mitizzazione.
Le testimonianze raccolte tra gli anziani di Douz vogliono che le canzoni ed i ritornelli intonati dall’incitatore e poi cantati coralmente dai componenti della carovana possiedano una valenza magica al fine di ottenere maggior resistenza dal dromedario.
Un altro genere di carovana percorreva un tempo le piste del Sahara tunisino, ora sostituita da comodi voli aerei: era la carovana dei pellegrini diretti a La Mecca, città santa dell’Islam e meta dell’annuale pellegrinaggio dei fedeli.
Il convoglio proveniva fin dal Marocco, attraversando orizzontalmente tutto il Sahara lungo la direttrice che collega Marrakech, Beschar, Ghardaia, Al Uàd, Djerid Nefta, Tuzar e Trables (Tripoli), aggregando lungo il percorso i fedeli dei paesi attraversati.
Le motivazioni del viaggio e gli stessi componenti della carovana erano differenti da quelli di tipo commerciali, ma i pericoli del deserto erano gli stessi.
Alcuni incaricati erano in avanguardia per parlamentare con i capi tribù (Rwasa al Kabila) lungo il cammino, ad essi pagavano un tributo in cambio della protezione di uomini armati, che li accompagnavano sino ai confini delle terre sulle quali avevano giurisdizione.
Talvolta bastava che la carovana dei pellegrini fosse riconosciuta sotto la protezione di un uomo santo (marabutto) noto per le sue virtù, per imporre rispetto religioso sufficiente per passare incolumi e senza dover pagare l’onere dei tributi nei territori in cui la fama del santo era riconosciuta.
Al hadiya (il regalo). Quando la carovana si avvicinava ad un villaggio o ad un accampamento, i ragazzini correvano felici incontro ai nuovi arrivati, affrettandosi ad offrire attraverso il sorriso l’ospitalità del luogo.
Immaginando che la carovana portasse con sè chissà quali cose misteriose, concitati gridavano ripetutamente: al hadija (un dono).
Per gli uomini della carovana era un obbligo rallegrare i giovani con piccoli doni anticipatamente preparati allo scopo: fave, ceci tostati e dolci: primo atto delle scambievoli cortesie tra carovanieri e la gente del villaggio.
Oggi i ragazzini, alla comparsa dei turisti, gridano: “cadeau cadeau” e gli occidentali, quasi sempre annoiati, rispondono sbuffando all’insistente richiesta, interpretata come una volgare e semplice questua.
Forse bisognerebbe considerare le radici di questo atteggiamento, cioè il tentativo di instaurare un buon rapporto con il nuovo venuto, anche perché i bambini del luogo chiedono esattamente ciò che loro, potendo, darebbero senza indugio.
Sale e coraggio (Dalle note raccontate da un vecchio di Douz), …”quando ero bambino l’arrivo della carovana metteva concitazione in tutto il villaggio, la notizia giungeva con i pastori che pascolavano lontano dal villaggio e che venivano al mercato alcuni giorni prima, tutti aspettavamo l’arrivo, preparavano la piazza dove la carovana una volta giunta sostava.
Lana, animali, derrate alimentari e manufatti venivano esposti nella speranza che fossero acquistati o scambiati. Io con i miei piccoli compagni andavamo sulla collina per osservare da lontano e quando comparivano i primi dromedari correvamo loro incontro, correvamo fino a farci scoppiare il cuore, quando giungevamo vicini ci mettevamo in fila, il primo rituale d’accoglienza tra noi piccoli del villaggio e gli uomini della carovana che erano per noi come degli eroi.
Noi eravamo piccoli, laceri ed affamati, sapevamo che il capo carovana ci doveva fare un dono. Tutti insieme componevamo una fila di diverse decine di metri, tutti eravamo in piedi, la testa alta gli occhi chiusi e la bocca aperta in attesa del dono.
Il capo carovana estraeva un sacchetto che teneva legato alla cintura da questo levava un grosso grano di sale che collocava con estrema lentezza nella bocca sotto la lingua di ognuno. Io non aspettavo che questo momento, il sale si scioglieva, la bocca era pervasa da un gusto che mi piaceva.
Poi in competizione con gli amici ci raccontavamo le impressioni avute. Il grano di sale diventava il cibo magico che dava una nuova forza, ed in ognuno di noi c’era il sogno che da grande saremmo diventati eroi come i carovanieri”. Tratto dal Corriere di Tunisi